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Category Archives: Disturbi dell’umore

Il lutto normale e patologico

Uno degli aspetti più complessi del lutto è quello di stabilire la differenza tra lutto normale e patologico; anche la scelta dei termini utilizzati per definirli ha suscitato, infatti, controversie.

Alcuni autori restringono il termine mourning (lutto) al lutto patologico mentre il termine grief (dolore) alla reazione normale; altri autori utilizzano invece, la denominazione mourning esclusivamente ai processi con un’evoluzione positiva.

Bowlby utilizza il termine grief per indicare le condizioni soggettive che emergono successivamente alla perdita ed accompagnano il lutto, mentre, il termine mourning, viene utilizzato dall’autore per indicare tutti i processi psicologici originati dalla perdita, sia consci che inconsci (Bowlby J., 1983; Grinberg L., 1971).

La tesi di Bowlby stabilisce un rapporto tra le reazioni patologiche osservate in pazienti adulti e le reazioni alla perdita osservabili nell’infanzia creando un nesso tra una condizione psichiatrica rilevabile in età adulta e l’esperienza riscontrata durante l’infanzia.

Bowlby ritiene che i processi di lutto verificatesi nei primi anni di vita tendono ad avere un’evoluzione patologica e rendono il soggetto più predisposto, rispetto ad altri, ad avere reazioni anomale difronte a perdite future.

L’autore sostiene che le perdite possono essere dannose e potenzialmente patogene sia se si verificano nei primi cinque anni di vita del bambino, sia in età più avanzata.

Bowlby osserva il comportamento di bambini di circa due e tre anni di età, i quali sono stati allontanati momentaneamente dalle cure materne e dall’ambiente familiare ed allevati da persone esterne. In seguito, attenziona l’atteggiamento del bambino al suo rientro in casa ed individua tre fasi diverse in base al suo comportamento nei confronti della madre: fase della disperazione, fase della protesta e fase del distacco.

La fase della protesta può durare diversi giorni ed è caratterizzata dai pianti e dalla collera del bambino che invoca il ritorno della madre e la rimprovera di averlo abbandonato. Successivamente appare più calmo ma profondamente preoccupato per l’assenza della madre; tuttavia, sembra ancora fiducioso nel suo ritorno.

La fase della disperazione insorge dal momento in cui la speranza nel ritorno della madre viene meno. Queste due fasi spesso si alternano e portano alla terza fase, quella del distacco, in cui il bambino sembra essersi dimenticato della madre ed al suo ritorno reagisce con indifferenza e disinteresse.

La durata del distacco del bambino appare correlata con la durata del periodo di allontanamento.

Bowlby sostiene che il distacco è il risultato di un processo difensivo regolare nel lutto in qualsiasi età e che tali reazioni caratterizzano tutte le forme del lutto.

La collera può essere considerata come la prima reazione alla perdita della persona amata e parte integrante della reazione di dolore. La sua funzione sembra essere quella di recuperare la persona persa pur sapendo che il tentativo è vano; condizione necessaria al fine di accettare il proprio fallimento, assumere l’irrimediabilità della perdita e dunque, attraversare un decorso normale del lutto.

Nel lutto patologico il soggetto non esprime l’impulso a recuperare la persona persa e la collera per essere stato abbandonato; reprime tali espressioni che, però, continuano a vivere all’interno dell’individuo, influenzando in modo distorto sia le sue sensazioni che il suo comportamento.

Nell’infanzia e nel lutto patologico i processi difensivi appaiono accelerati e gli impulsi a recuperare la persona amata perduta possono persistere, dando origine anche a gravi conseguenze.

Freud (1938) sosteneva che in seguito ad una perdita, oltre alla repressione, può attuarsi la dissociazione dell’Io: la parte nascosta, ma conscia della personalità, nega la perdita e sostiene il suo ritorno; allo stesso tempo, un’altra parte condivide all’esterno l’irrimediabilità della perdita.

Bowlby attraverso l’analisi di ricerche che mirano a descrivere la reazione tipica alla perdita di un coniuge nel primo anno successivo alla sua morte, individua quattro fasi nel decorso del lutto: fase di stordimento, fase dello struggimento, fase di disorganizzazione e disperazione e fase di riorganizzazione.

La fase di stordimento può durare da poche ore a una settimana e può essere interrotta da stati di angoscia o collera anche molto intensi. Ad esempio, in seguito alla notizia della perdita del marito, la vedova può sentirsi incapace di accettare la notizia; non riesce ad accettare la morte e può mostrare una calma innaturale che talvolta, può essere interrotta da sentimenti come la collera o il panico.

Nella fase di ricerca e struggimento per la persona perduta la vedova inizia a rendersi conto dell’irrimediabilità della perdita e manifesta angoscia, dolori e pianto contemporaneamente a irrequietezza ed insonnia.

Il suo pensiero è spesso rivolto al marito e percepisce la sensazione della sua presenza, interpretando rumori o segni come manifestazioni del suo ritorno.

Tali espressioni sono comuni a tutte le vedove e dunque, sostiene Bowlby, costituiscono insieme alla collera, un aspetto normale del dolore e del lutto.

Nel lutto sano la necessità di cercare e recuperare la figura scomparsa tende a diminuire con il tempo; nel decorso del lutto patologico invece, tale ricerca persiste in modo intenso e viene espressa in diverse forme distorte e mascherate.

Il pianto, la collera, l’ingratitudine e la ricerca incessante della figura perduta vanno considerati come aspetti tipici della seconda fase del lutto e tentativi di ritrovare e recuperare la persona persa.

In seguito ad una perdita la persona può desiderare di liberarsi dei ricordi del defunto oscillando tra impulsi incompatibili: voler conservare i ricordi o volersene disfare.

La fase di disorganizzazione, disperazione e riorganizzazione comporta la capacità di riuscire a tollerare il tormento emotivo e la sofferenza che il decorso del lutto porta con sé, ammettere il carattere definitivo della morte ed accettare che la propria vita abbia bisogno di una ristrutturazione.

I bambini spesso reagiscono alla perdita negando la sua irrimediabilità e continuano ad aspettarsi il ritorno del genitore.

Secondo Bowlby di fronte ad un lutto sia gli adulti che i bambini necessitano di una persona di fiducia con la quale possano gradualmente stabilire un legame e dunque, accettare definitivamente la perdita e riorganizzare il proprio mondo interno.

Il terapeuta di una persona colpita da una perdita deve prendere in considerazione le sue speranze, i suoi desideri, i suoi rimpianti e i rimproveri che l’affliggono, rispettando le sue sensazioni, seppur illusorie, senza necessariamente intervenire a favore della realtà. Nonostante sia un percorso lungo e difficile, il paziente deve avere la possibilità di esprimere la rabbia per l’abbandono, la collera e la paura della solitudine per poter andare avanti.

Nel lutto patologico le reazioni emotive possono essere violente e prolungate nel tempo; il dolore sembra essere assente mentre il rancore e gli autorimproveri appaiono prevalenti. Tali caratteristiche del lutto accompagnate da depressione, angoscia, ipocondria o alcolismo, possono essere definite come lutto cronico.

Il lutto patologico può manifestarsi anche nel suo contrario, ovvero nell’assenza prolungata di lutto cosciente: la vita del soggetto non sembra stravolta dalla perdita; sono spesso individui autosufficienti, indipendenti e sprezzanti dei sentimenti. Appaiono impegnati ed efficienti ma possono presentare insonnia, tensione, irritabilità e sintomi fisici, apparentemente inspiegabili.

In entrambe le forme di lutto patologico la perdita viene considerata come reversibile e può continuare l’impulso a ricercare il defunto, la collera e l’autorimprovero, mentre la tristezza ed il dolore vengono a mancare.

L’assenza di lutto conscio può essere considerata come un’estensione della fase di stordimento, mentre, le fasi del lutto cronico possono essere considerate come estensioni patologiche della fase di struggimento e ricerca e della disorganizzazione e disperazione.

Il lutto patologico può manifestarsi anche attraverso l’euforia: la reazione euforica alla morte può essere l’esito del rifiuto nel credere che la perdita sia realmente avvenuta o, al contrario, nell’assumere che abbia migliorato la condizione di chi è rimasto in vita.

I processi difensivi messi in atto dal soggetto, al fine di mitigare la sofferenza di una perdita, possono trovarsi sia nelle varianti sane che patologiche di un lutto; ciò che li differenzia è la durata, la rigidità o l’influenza totale o parziale sul funzionamento mentale.

Durante il decorso di un lutto patologico può verificarsi, ad esempio, lo spostamento della collera nei confronti di un’altra persona o altre difese come la rimozione, la scissione o la dissociazione.

Gorer (1965) ha introdotto il termine “mummificazione” per descrivere una forma patologica di reazione alla perdita in cui il soggetto rimasto in vita sembra essere convinto del ritorno del defunto e tende a conservare tutti i suoi oggetti personali in modo che possa trovarli al suo rientro. Sul versante opposto invece, alcune persone che evitano il lutto, tendono a disfarsi di tutto ciò che possa ricordargli la persona scomparsa.

Coloro i quali non hanno vissuto coscientemente il lutto possono presentare forti reazioni emotive e forme di depressione; gli elementi scatenanti della crisi possono essere: la ricorrenza dell’anniversario della morte, un’altra perdita, il raggiungimento dell’età in cui è avvenuta la morte, un’eventuale altra perdita avvenuta ad una persona con la quale il soggetto si è identificato.

Bowlby sostiene che tra le reazioni patologiche alla perdita si può verificare la collocazione impropria del defunto: in un animale, un oggetto, un’altra persona o dentro se stessi. Tale collocazione la si trova nel lutto cronico e se persiste e si stabilizza nel tempo può portare ad una mancata elaborazione del lutto.

L’identità della persona venuta a mancare assume una gravità particolare quando viene attribuita ad un bambino dal genitore che ha subito la perdita.

Cain e Cain (1964) sostengono che tali bambini possono essere stati concepiti come repliche di sorelle o fratelli morti.

Gli autori attraverso osservazioni ottenute su bambini provenienti da una clinica psichiatrica, sostengono che le madri presentavano ancora prima della perdita del proprio bambino una personalità patologica; avevano subito un elevato numero di perdite durante la propria infanzia ed avevano investito narcisisticamente sul proprio figlio quando era ancora in vita.

Bowlby ipotizza che alcuni tipi di personalità siano più vulnerabili alla perdita rispetto ad altri.

Nel determinare il decorso del lutto ha un’importanza rilevante: l’identità o il ruolo della persona perduta, le cause della morte, l’età ed il sesso della persona che resta, le circostanze sociali e psicologiche, la personalità del soggetto ed il tipo di organizzazione del suo comportamento di attaccamento.

Freud (1915) evidenzia la presenza di rapporti ansiosi e ambivalenti sin dall’infanzia in persone che hanno successivamente manifestato disturbi depressivi in seguito ad una perdita; sottolinea la presenza di una fissazione all’oggetto d’amore e difficoltà nel tollerare frustrazioni e delusioni.

Bowlby trae dunque, alcune conclusioni: la maggior parte degli individui che reagiscono alla perdita con un lutto patologico, secondo l’autore, presenta un attaccamento insicuro e ansioso, è incline a prendersi cura in modo coatto di altri, mostra un’autosufficienza emotiva precaria e una forte ambivalenza.

In particolare, asserisce che i disturbi di personalità presenti nel lutto patologico sono il risultato di deviazioni nello sviluppo dell’individuo durante la prima infanzia e l’adolescenza. Alcune deviazioni nascono da rapporti e risposte discontinue da parte di figure parentali nei confronti del bambino e possono tradursi in un attaccamento ansioso e insicuro o in una vigorosa autosufficienza (Bowlby J., 1979; Bowlby J., 1983).

Racamier definisce il lutto come un processo psichico fondamentale per la psiche che si svolge nel corso dell’intera vita. È un processo maturativo universale ed originario; inizia con la vita stessa e termina con la morte.
Il lutto avviene gradualmente e può essere considerato come un processo, un affetto o un lavoro.
Secondo l’autore, non si verifica soltanto in seguito alla perdita dell’oggetto completa ma anche dopo un distacco o in seguito alle esigenze della crescita o alle vicissitudini della vita.

L’Io fin dalla prima infanzia si confronta con la necessità di rinunciare al possesso totale dell’oggetto e compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta e tramite questa rinuncia fonda le sue stesse origini, opera la scoperta dell’oggetto e del Sé e inventa l’interiorità.

Racamier sostiene che l’attraversamento del lutto originario comporta un cambiamento per la psiche; è un processo in cui nulla resterà come prima e che non smetterà mai di compiersi.
La madre ed il bambino sono immersi fin da subito in una relazione di reciproca seduzione (seduzione narcisistica) che mira ad escludere e neutralizzare le tensioni provenienti sia dall’interno che dall’esterno ed a rifiutare la differenza, quale presupposto della separazione e del desiderio.

Nel bambino e nella madre agiscono delle tensioni che tendono alla rottura dell’unisono simbiotico; nel bambino operano spinte vitali aggressive, il desiderio di scoperta e di crescita, mentre, nella madre le forze sono complementari e ambivalenti. Il bambino volge le spalle alla madre ponendo fine alla relazione di seduzione narcisistica; dovrà quindi, fare il lutto dell’illusione di appartenenza e onnipotenza totale.

Il bambino scopre l’oggetto in quanto tale soltanto dopo averlo perduto; scopre la madre e la desidera. L’oggetto perduto come oggetto assoluto esterno viene interiorizzato e ritrovato come oggetto interno. L’attraversamento del lutto originario è il presupposto principale per ogni possibile crescita; senza un lutto compiuto non vi è autonomia né per il soggetto né per la sua famiglia.

L’ammirazione provata dalla madre nei confronti del bambino che cresce costituirà tutto ciò che gli serve per andare avanti in una serie di altri lutti originari. Il lutto una volta compiuto lascia una cicatrice originaria indispensabile per conferire all’Io la capacità di tollerare i lutti successivi.

L’attraversamento del lutto originario permette di investire sull’oggetto e su se stessi e di acquisire una sufficiente fiducia di base; al contrario, quando l’Io non riesce ad attraversare il lutto originario, prevale la sfiducia di base nei confronti di se stessi, dell’oggetto e del mondo.

Il lavoro del lutto conduce alla riscoperta di un oggetto e alla possibilità di affrontare grandi e piccoli lutti futuri; tuttavia, non porta ad una immunità totale. Il lutto originario è il modello di ogni crisi o cambiamento a venire; nessun lutto potrà essere superato se non successivamente al processo del lutto originario.

Il lutto potrà essere realizzabile se l’investimento sull’oggetto perduto non è stato eccessivamente ambivalente o narcisistico: se l’oggetto è stato odiato, il lutto può trasformarsi in melanconia e l’oggetto viene introiettato ed attaccato dall’interno per essere conservato; l’oggetto narcisistico invece, non può essere perduto in quanto unito
all’oggetto che lo possiede.

Racamier afferma che quando il lutto fallisce sfocia nella depressione; l’Io non riesce sempre a portare avanti il lutto o a formare una depressione e può dare origine a lutti e depressioni espulse.
L’autore parla di “lutto fissato” per indicare un lutto sospeso, un lutto che non fa rumore, si ferma e si fissa subito dopo esser iniziato; le conseguenze sembrano appartenere al registro somatico.
Il “lutto occluso” può essere definito come il contrario del precedente: il tormento della perdita viene inflitta ad altri; i bambini rimpiazzano figli precedentemente deceduti.

Nell’espulsione del lutto intervengono scissione e diniego: l’Io nega di essere in lutto e depresso e si separa dal resto della psiche che non è riuscito a distruggere.
Il diniego “sfigura” ciò che attacca, mentre, la scissione “immobilizza” ciò da cui l’Io si separa: tale lutto dunque, scisso e denegato, sarà anche evacuato e defantasmato.

Il lavoro del lutto sarà quindi, sfigurato, amalgamato, reso irriconoscibile e trasmesso da una persona all’altra; i figli diventano portabagagli e le loro origini appaiono confuse ed interrotte. Secondo Racamier in ogni depressione o lutto fissato, amalgamato o espulso è possibile rintracciare il segreto o l’incesto.

Al fine di evitare il vissuto di un lutto, l’Io può ricorrere alla suicidosi: minacce e tentativi ripetuti di suicidio che hanno la funzione di sfuggire al dolore e al rischio depressivo; il lutto viene così ripudiato ed espulso, in forma sfigurata, attraverso gli agiti.

Nella suicidosi l’attività fantasmatica è siderata, inerte e vacante ed ogni affetto, così come la depressione, è evitato. Il mondo esterno appare estremamente coinvolto, tanto che, non è il paziente a tormentarsi, ma più il suo ambiente, spesso manipolato ed influenzato.

Racamier afferma che ogni stato depressivo è il fallimento di un lutto e dunque, per poter uscire da una depressione è fondamentale passare attraverso il lutto; accompagnandolo, senza soffocarlo. Attraverso il lavoro di psicoterapia sarà possibile permettere alla porta del lutto di aprirsi e liberare la colpa intrisa nel lutto che genera depressioni.

Secondo l’autore soltanto attraverso il lavoro psicoanalitico sarà possibile restituire al soggetto il processo del lutto espulso; tuttavia, questo ritorno può essere rifiutato e dunque, si dovrà restaurare il narcisismo ferito dell’Io screditato dall’oggetto espulso.

L’analista dovrà perdere l’oggetto, fare il lutto narcisistico della guarigione troppo desiderata e permettere così al paziente di crescere, ritrovare un’età e un avvenire (Racamier P.C., 1992).

 

 

Psicologia e Psicoterapia a L'Aquila Lara Lorenzetti

Il colloquio e la psicoterapia psicodinamica

Il colloquio è impiegato da diversi approcci psicoterapeutici, quale metodo elettivo, per lo sviluppo di un processo autoconoscitivo.

Al termine del processo diagnostico, lo psicoterapeuta, in base alla problematica ed alla struttura di personalità del soggetto, può proporre l’attuazione di una psicoterapia e, attraverso una restituzione, fornire all’individuo una chiave di lettura della propria storia in una serie di formulazioni chiare per il soggetto e aderenti ai suoi vissuti interni (Del Corno F., Lang M., 1999; Lis A. et al., 1995).

Indispensabile è un tempo per riflettere e pensare, che viene lasciato all’individuo affinchè maturi l’eventuale decisione di intraprendere una psicoterapia.

La psicoterapia psicodinamica è un tipo di approccio basato su presupposti teorici e tecnici di matrice psicoanalitica. Tale approccio rivolge una profonda attenzione all’analisi del transfert, delle resistenze e alla relazione terapeuta-paziente (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

L’assunto fondamentale alla base delle psicoterapie psicodinamiche è che non si possono modificare o comprendere comportamenti, pensieri e fantasie del soggetto, senza considerare le determinanti inconsce che influenzano ogni aspetto della vita dell’individuo.

Il presente può essere compreso solo tenendo conto delle esperienze passate del paziente; i vissuti infantili sono considerati determinanti nel plasmare la struttura e i contenuti dell’apparato psichico del soggetto adulto.

L’interiorizzazione di precoci esperienze di Sè in rapporto con l’altro e relativi stati affettivi a esse associati, creano strutture rappresentazionali complesse che costituiscono il mondo interno del soggetto.

Il terapeuta psicodinamico individua ed esplora i diversi aspetti intrapsichici, relazionali ed interpersonali del paziente, al fine di aiutarlo a riconoscerli, gestirli e risolverli.

Dovrà lavorare sull’individuazione e l’analisi dei modi difensivi con cui il soggetto cerca di negare o distorcere alcuni aspetti della propria esperienza. Le difese utilizzate dal paziente, forniscono al terapeuta, informazioni fondamentali riguardo il livello di funzionamento dell’individuo, la pianificazione del trattamento e l’individuazione degli obiettivi terapeutici (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Il sintomo ed i comportamenti sono considerati come riflessi di processi inconsci che difendono il soggetto da sentimenti e desideri rimossi (Gabbard G.O., 2014). I sintomi rapprersentano un soddisfacimento parziale, mascherato e distorto, sia di istanze dell’Es che di istanze del Super-io (Gislon M.C., 1988).

Nel colloquio, secondo Bergeret (1979), l’interesse dello psicologo non è rivolto nè al sintomo, nè alle sole manifestazioni somatiche. Tuttavia, il paziente, deve sentirsi autorizzato a soffermarsi sul sintomo, come e quando vuole (Bergeret J., 1979).

Il colloquio psicodinamico permette di comprendere i conflitti del paziente, come si pone in relazione alle persone della sua vita e raccogliere i dati necessari per la valutazione dei suoi bisogni. L’obiettivo principale è quello di stabilire una comprensione condivisa con il paziente, affinchè si senta considerato come una persona unica con problemi specifici.

L’individuo che intraprende una psicoterapia psicodinamica è un partecipante attivo all’interno di un processo esplorativo e deve sentirsi libero di poter riflettere ed analizzare con calma ciò che prova.

 

Bibliografia:

Bergeret J., (1979), Psicologia patologica. Teoria e clinica. Milano: Masson.

Del Corno F., Lang M., (1999),  Modelli di colloquio in psicologia clinica. Milano: Franco Angeli.

Gislon M.C., (1988), Il colloquio clinico e la diagnosi differernziale. Torino: Bollati Boringhieri.

Gabbard G.O., (2014), Psichiatria psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina, 2015

Lis A., Venuti P., De Zorzo M.R. (1995), Il colloquio come strumento psicologico. Firenze: Giunti

Lingiardi V., Gazzillo F., (2014), La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinicae diagnosi al servizio del trattamento. Milano: Raffaello Cortina.

 

Destino e Inconscio

Il Destino e l’Inconscio

Quando la vita ci pone davanti a dei momenti fatali o a delle inspiegabili ingiustizie, l’uomo si chiede da sempre, perché?

La risposta più semplice e antica a questa domanda è: destino.

Imprevedibilità e casualità sono il volto instabile e destabilizzante del destino. Il caso non risponde a nessuno schema o organizzazione, è inaccessibile alla comprensione e il suo andamento è opposto al concetto di ordine. Così, osservando gli avvenimenti casuali, non è possibile leggere alcuna logica comprensibile o uno scopo sensato; ogni evento fortuito non è prevedibile, non sembra avere una finalità, una motivazione o una spiegazione. Il concetto di caso appare, dunque, come un affronto all’Io, alle sue facoltà di comprendere, predire, determinare e alle sue funzioni di controllo.

Asserire che la spiegazione degli eventi fatali sia dovuta esclusivamente al caso può sembrare semplicistico e dunque, si avanza il sospetto che il caso sia un evento la cui causa è ancora sconosciuta. Il sapere, infatti, toglie sicuramente terreno alla dottrina del caso e, dinanzi alle cognizioni dell’intelletto, non si invoca più l’intervento della sorte per spiegare la realtà.

Un evento può rivelarsi fortunato o sfortunato, a seconda dei momenti in cui accade o delle conseguenze che avrà nel futuro. Caso e fortuna fanno sentire l’uomo impotente e se il tutto avviene secondo un’imprevedibile volubilità, non esiste ragione perché l’Io si impegni nell’autodeterminazione. Se lo strapotere è della fortuna, l’Io non può che abbandonarsi all’impotenza, adagiandosi pigramente e demandando ad esso ogni scelta e responsabilità; se invece, l’Io non riconosce il potere della fortuna, non può che affermare la sua onnipotenza, ritenendo la sua abilità più efficace del caso, erotizzando la sfida con la fortuna, consapevole della sofferenza che ne conseguirà.

La psicoanalisi ha ridimensionato il concetto di destino; ad oggi l’ipotesi che l’inconscio sia responsabile di comportamenti apparentemente fortuiti è ampiamente accettata dalla cultura contemporanea. Atti ed eventi mancati, omissioni, dimenticanze e malintesi, un tempo considerati figli della casualità, oggi sono attribuiti all’inconscio. Questo si rivela nella reiterazione di comportamenti o impedimenti, in atti inspiegabili alla ragione, in tutte le coazioni a ripetere e ripropone modelli identici con la stessa perseveranza del destino.

Le sue manifestazioni assumono un andamento simile alle combinazioni del caso: imprevedibili, perverse e insensate, come solo il caso sa fare. Se si riuscisse a scrutare nell’abisso della mente, molte cose apparentemente assurde troverebbero una spiegazione; non è raro osservare partner diversi di una stessa persona che ricordano quelli precedenti e presentano tratti e caratteristiche in comune anche nell’aspetto. Le relazioni umane o i rapporti d’amore di alcune persone si concludono tutte nello stesso modo e, a questa apparente casualità, la scoperta dell’inconscio può offrire nuovi scenari e rintracciare scopi che il conscio mai condividerebbe, anzi, al contrario, troverebbe lesivi, dolorosi o assurdi.

Nel creare apparenti combinazioni ed eventi, l’inconscio lavora ad un preciso piano e persegue mete e scopi coerenti, ignoti all’Io e non conoscibili né spiegabili al conscio. L’Io non ha consapevolezza delle sue intenzioni e così gli eventi della vita appaiono spesso fortuiti e imprevedibili, ma solo in apparenza. (Widmann C., 2006).

Genitorialità

Gravidanza e Neogenitorialità

Durante la gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino, la madre deve elaborare dei processi psichici del tutto inconsci; è un momento estremamente delicato in cui la donna inizia a distinguere tra realtà, fantasie e fantasmi relativi al parto, al neonato e all’ambiente esterno (Ferraro, Nunziante Cesaro, 1985).

La nascita di un bambino è un’importante fase della vita di una donna che permette la riorganizzazione del proprio mondo interno e la creazione di uno spazio adatto a contenere l’idea del piccolo arrivato e di se come genitore (Minuchin, 1976).

Possiamo evidenziare, dunque, quanto sia importante un processo elaborativo in questo particolare periodo, considerato da vari autori, proprio come un momento di crisi, in cui si riattivano anche conflitti e vissuti dell’infanzia. Soifer (1971) sostiene, infatti, che la madre inizia un processo regressivo in cui entra in contatto con le emozioni vissute da bambina: se la donna è riuscita ad identificarsi con una buona immagine materna, riuscirà a vivere serenamente anche l’esperienza della maternità.

Ogni madre risponde non tanto al bambino reale, ma a quel che di sé vede fantasmaticamente proiettarsi nel suo bambino. Se il bambino guardando la madre vede se stesso nello sguardo dell’Altro, si vede come la madre lo vede: amabile, desiderabile, oppure no. Guardando il bambino la madre deposita inconsciamente in lui la sua storia di figlia. Se dunque, per il bambino essere amabile dipende dallo sguardo della madre, per la madre l’amabilità di un bambino può dipendere da come ha integrato in se stessa la propria maternità e, in particolare, il legame con sua madre. In ogni gravidanza, infatti, la futura madre si confronta con il fantasma della propria madre e dovrà morire come figlia (Recalcati, 2016).

Possiamo affermare, quindi, che la gravidanza ed il periodo successivo al parto sono fondamentali per i rapporti che si instaurano tra la madre ed il neonato, il partner e la famiglia.

Bibring et al. (1961) individua nella futura madre due fasi: l’accettazione dell’ambiente come parte integrante di sé e il riconoscimento dell’esistenza del bambino dentro di sé. Secondo l’autore la gravidanza è caratterizzata da un’estrema vulnerabilità della donna che può destabilizzare l’equilibrio precedentemente raggiunto. Se questo “lavoro psichico” non riesce a concludersi con l’acquisizione di un nuovo equilibrio maturativo, può evolvere in un disturbo depressivo nel post-partum.

Pines (1982) indagando lo stato mentale della donna in gravidanza, individua quattro differenti stati: una polarizzazione su di sé caratterizzata da regressione e passività; la presenza di ansia e perdita in seguito alla percezione del feto come entità separata; ansia riguardante l’integrità del bambino durante il travaglio ed il parto; il periodo del dopo parto. Questi numerosi cambiamenti possono creare profonde difficoltà in grado di compromettere l’identità individuale. Per la futura mamma sarà quindi necessario ridefinire, oltre che la realtà esterna, preparando uno spazio fisico nel mondo reale per il neonato, anche il proprio mondo interno, creando uno spazio che gli permetta di contenere l’idea di un figlio. Stern sostiene, infatti, che alla nascita del bambino corrisponde la nascita psicologica della madre.

Molte donne nel periodo del post-parto sperimentano una vasta gamma di emozioni positive, come felicità e soddisfazione, ma possono presentare anche ansia, confusione, frustrazione e tristezza. I disturbi dell’umore presenti in questo delicato periodo sono ancora oggi sottodiagnosticati con conseguenze di vasta portata per la donna e per tutta la famiglia.

La maternity blues è nota anche come “baby blues” ed è un periodo in cui la donna è estremamente emotiva, presenta frequenti episodi di pianto, è irritabile, ipersensibile e ha oscillazioni dell’umore che durano da alcune ore a diversi giorni dopo il parto (Horowitz et al. 2005).

La baby blues è molto comune e vissuta dalla maggior parte delle madri; i suoi sintomi non interferiscono con il funzionamento sociale e lavorativo delle donne e necessita il più delle volte del solo sostegno familiare. Tuttavia, se persiste può renderle vulnerabili a una forma più grave di disturbo dell’umore.

La depressione post partum, ad esempio, è il disturbo psichiatrico più comune osservato nel periodo che segue la nascita di un bambino. È difficile distinguerla dalla depressione che generalmente si manifesta in qualsiasi altro periodo della vita di una donna, tuttavia, i pensieri negativi presenti in questo tipo di depressione sono principalmente riferiti al neonato. I sintomi che caratterizzano questo disturbo sono: sentimenti di inadeguatezza, collera, ipersensibilità, ansia, vergogna, odio e trascuratezza verso se stessa ed il bambino, disturbi del sonno e dell’appetito, calo del desiderio sessuale e pensieri suicidari (Raphael-Leff, 1991; Nonacs, 2005). Inoltre, sono spesso frequenti pensieri di carattere ossessivo che riguardano il bambino, paure immotivate di fargli del male o preoccupazioni eccessive circa il suo benessere e la sua sicurezza. È importante anche tener presente dei cambiamenti ormonali che possono influire sull’insorgenza di questo disturbo. Il fatto che la maggior parte delle donne dopo il parto sia soggetta a cambiamenti ormonali ma che solo alcune soffrano di una vera e propria depressione ha suggerito la presenza di una varietà di fattori eziopatogenetici, da quello biologico a quello psicologico e relazionale (Raphael-Leff,1991).

Alcuni studi hanno individuato diverse forme di grave psicosi puerperale. Soifer (1971) la definisce come un periodo caratterizzato dalla presenza di allucinazioni uditive, idee deliranti di tipo paranoide, sentimenti di autosvalutazione, tristezza, rifiuto del bambino, apatia, trascuratezza, insonnia ed inappetenza.

Emerge, dunque, la necessità di valutare attentamente i disturbi dell’umore presenti nel post partum, sia di forma lieve che di media gravità, a causa delle gravi sofferenze e rischi che gravano sia sulla madre che sul bambino.

Durante la maternità il partner della donna svolge il ruolo fondamentale di fornire sicurezza e supporto emotivo. Molti padri, invece, manifestano ansia e depressione proprio nel periodo in cui dovrebbero fornire un clima di maggiore fiducia. Questi stati possono rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emotivo della partner, per il rapporto tra la madre ed il figlio e per lo sviluppo psicologico e somatico del bambino (Whiffen e Johnson, 1998; Luca e Bydlowsky, 2001; Baldoni, 2008).

In base ad una revisione delle teorie sistemiche emerge che qualsiasi fattore che influisce su un membro della famiglia esercita un effetto anche sugli altri membri. Si evince, quindi, che le condizioni psicosociali ed emotive dei partner si influenzano a vicenda. Alcune evidenze suggeriscono che nel periodo del post partum anche alcuni padri possono essere a rischio di sviluppare una depressione. La depressione paterna sembra essere un fenomeno clinico vero e proprio, importante ma ancora poco conosciuto (Goodman J.H, 2004; Wilson C.C., 2008).

Spesso dopo il parto è presente una difficoltà nell’adattarsi ai nuovi ruoli genitoriali con una divisione dei compiti familiari non equilibrata. Talvolta, il padre incontra delle difficoltà nell’abbandonare il ruolo tradizionale maschile e non viene coinvolto nella cura del neonato e nella gestione della casa (Whiffen e Johnson, 1998). Può percepire la depressione della partner e il passaggio alla paternità in termini di perdita della compagna e della relazione di coppia precedentemente condivisa (Meighan, Davis, Thomas e Droppleman, 1999). L’uomo può provare un forte senso di impotenza, aumento di responsabilità, stress, vissuti di rabbia e di risentimento, solitudine, frustrazione e perdita dell’intimità sessuale (Soliday et all; 1999).

Possiamo affermare, dunque, che l’intero sistema familiare nel periodo del post parto subisce numerosi cambiamenti e, oltre a rappresentare un momento ricco di gioie ed emozioni positive, è caratterizzato anche da ansia e stress per entrambi i genitori che necessitano di maggiore protezione, conforto e rassicurazione.

Il Narcisismo

Nel linguaggio abituale il narcisista è un individuo che si preoccupa solo di se stesso, manca di interesse per gli altri, è avido ed egoista. I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono e negano i sentimenti che contraddicono l’immagine che vorrebbero mostrare. Tendono a essere seduttivi, manipolativi e ad ottenere potere e controllo sugli altri (Lowen A., 1985).

I disturbi narcisistici sono collocati lungo un continuum: da sano a patologico. A un estremo si colloca un’immagine iper-negativa di sé: sentimenti di inferiorità e di impotenza; all’altro, un’immagine iper-positiva con eccessiva considerazione di sé, sentimenti di superiorità e onnipotenza. Il narcisismo sano (capacità di riconoscere le proprie qualità positive e di regolare la propria autostima) si trova a metà tra questi due poli opposti (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Kernberg definisce il narcisista come un individuo che presenta intense ambizioni, fantasie grandiose, sentimenti di inferiorità e bisogno di essere ammirato ed approvato. Inoltre, è tipica: l’incertezza cronica, l’insoddisfazione nei confronti di se stessi, la crudeltà e lo sfruttamento nei confronti degli altri.

I narcisisti sono assorbiti dalla propria immagine e non riescono a distinguere tra l’immagine di chi credono di essere e l’immagine di chi effettivamente sono; perdendo così l’immagine reale di sé (Lowen A., 1985).

L’immagine del sè è eccessivamente idealizzata e viene negata in modo onnipotente qualsiasi cosa comprometta questo quadro. Tali soggetti possono facilmente fare propri valori e idee degli altri, oppure, al fine di evitare un’ invidia insopportabile, inconsciamente svalutano e distruggono quel che ricevono dagli altri. Rosenfeld (1971) sostiene che le personalità estremamente narcisistiche possono essere autodistruttive; manifestare un odio inconscio per tutto ciò che è buono e valido e sentirsi trionfanti e fiduciosi solo quando riescono a distruggere gli altri e vanificare gli sforzi di coloro che li amano (Kernberg O. F., 1987).

Rosenfeld (1987) individua due tipi di narcisista: a pelle spessa e a pelle sottile. Il narcisista a pelle spessa è caratterizzato da aggressività, arroganza, invadenza e distruttività; il narcisista a pelle sottile, invece, si contraddistingue per un sentimento di vergogna e di inferiorità, per la sensibilità alle critiche e dalla costante ricerca di approvazione (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

La caratteristica più rilevante del narcisista è la richiesta di attenzione che può operare a un livello molto sottile: implicitamente idealizza se stesso e può proiettare questa fantasia di appagamento del desiderio negli altri o in altri ambiti della propria vita. Questo dà luogo ad un “contratto narcisistico”: io ti incoraggio ad esaltare te stesso, tu fai lo stesso con me”; “tu idealizzi me, io idealizzo te”.

Alcuni utilizzano il linguaggio come un sistema di segni: le parole sono come espressioni del viso o del corpo ed hanno il fine di indicare ciò che procura piacere o dispiacere. Il narcisista per affermare l’intenzionalità preverbale del sé, utilizza: sopracciglia alzate; sussulti; cupe occhiate; silenzi; sospiri o colpi di tosse.  Il linguaggio li divide dall’egemonia dell’immagine e dall’utilizzo del non-verbale; utile, invece, per controllare e manipolare l’altro.

Il partner di un soggetto narcisista può rendersi conto che la generosità e l’apertura di quest’ultimo sono, in realtà, una forma di non-relazione e, se cerca risposte, va incontro a frasi del tipo: “Bene, questo è ciò che pensi tu. Questo invece è ciò che penso io. Ora la discussione finisce qui”.

Se il narcisista viene ulteriormente contrastato, l’aggressività può diventare evidente e manifestarsi con espressioni del tipo: “Lasciami stare, altrimenti…”.

L’altro deve soddisfare un bisogno: il narcisista necessita di vivere in modo stabile e prevedibile, quindi, l’altro deve essere affidabile, così da poter programmare le sue richieste all’interno del proprio sistema di vita e di relazione. Ad esempio, se egli sa che il proprio partner preferisce uno specifico programma televisivo, un gruppo musicale o di amici, questi oggetti saranno programmati all’interno di ciò che il narcisista fornisce, al fine di ottenere in cambio quelle ricompense delle quali il sè ha bisogno. Nei casi più gravi la consapevolezza di un sentimento interno di vuoto produce un senso di orrore, focalizzato sul fatto di rendersi conto di non aver vissuto realmente la propria vita come avrebbe potuto. Questo sentimento costituisce la causa di un enorme dolore mentale e di un acuto senso di perdita.

É possibile offrire ai pazienti narcisisti una relazione ed una ricostruzione storica ed aiutarli a comprendere meglio se stessi (Bollas C., 2022).

La chiave di ogni terapia è la comprensione; senza di essa nessun approccio o tecnica terapeutica è efficace a livello profondo (Lowen A., 1985).

Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino per sé al potere, al successo, alla ricchezza, e ammirino queste cose negli altri, sottovalutando i veri valori della vita.Freud, Il disagio della civiltà.