Disturbi del Comportamento Alimentare: quando amare significa dare all’altro quello che non si ha

L’anoressia caratterizza ancora oggi il nostro tessuto sociale rappresentando un problema importante a partire soprattutto dall’adolescenza. Tuttavia, cresce l’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare tra i bambini in età prepubere e nella popolazione generale adulta.

Di solito, viene vista come una patologia che investe prevalentemente l’alimentazione, tralasciando facilmente tutto ciò che comporta il corpo e l’identità. Il sintomo anoressico è il segnale del fallimento dei processi di integrazione di parti della personalità in sviluppo, inerente al processo di costruzione dell’identità; quindi, è relativo al periodo dell’adolescenza e, dunque, al momento della definizione dell’identità sessuale e dell’acquisizione del corpo sessuato.

Il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) la colloca nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione, ponendo l’accento sul cibo. Tuttavia, è di fondamentale importanza considerare anche le alterazioni dell’immagine del corpo che possono manifestarsi con il desiderio di magrezza e con l’idea fissa di ingrassare.

Alcune persone si percepiscono grasse contrariamente alla realtà, alcune magre o snelle ma ritengono troppo voluminose alcune parti del proprio corpo; altre invece, si mostrano fiere del loro aspetto fisico. Nonostante tutto il corpo sia ridotto ad uno scheletro, un tratto di esso, ad esempio i fianchi, può imporsi ed influenzare la percezione di sé. La distorsione della propria immagine corporea allo specchio è severa e non in linea con le proprie aspettative ideali. Il soggetto ha sempre la sensazione di essere grasso e il timore di ingrassare; questo, lo porta inevitabilmente a vivere sempre delle restrizioni e a mantenere il controllo su di sé.

I livelli di autostima sono influenzati dalla forma fisica e dal peso corporeo; è come se il proprio valore passasse attraverso la capacità di controllare questi aspetti. La perdita di peso viene considerata come una straordinaria conquista, un elemento di trionfo rispetto alle esigenze del proprio corpo; mentre, l’incremento ponderale, viene percepito come un’inaccettabile perdita del controllo. Il timore di ingrassare non diminuisce con il dimagrimento, indice di un diniego della magrezza e della sua gravità.

Il soggetto presenta una scarsa consapevolezza della propria malattia che non viene vissuta come un disturbo e, dunque, non crede che dal ricevere aiuto possa nascere un miglioramento; la richiesta d’aiuto arriva solitamente da un familiare che tenta di affrontare il sintomo, soprattutto quando diventa severo e imponente.

Il sintomo anoressico permette così di occupare una posizione di onnipotenza; gli amici e la famiglia si mobilitano intorno all’individuo, l’anoressia diviene il tema principale delle conversazioni e delle preoccupazioni e il peso diventa un oggetto interessante di cui parlare. Questo aspetto può rivelarsi come un vantaggio nel soggetto che sta strutturando una patologia alimentare, poiché gli permette di ottenere una centratura narcisistica, uno degli aspetti nascosti della problematica anoressica.

Tali famiglie possono presentare un serio difetto di comunicazione intersoggettiva; al sintomo non viene attribuito alcun valore espressivo, viene privato delle emozioni e dei sentimenti e relegato al solo problema dietologico e gastroenterologico. Tutto sembra nascere da una questione estetica e superficiale che cela, però, il bisogno di controllare la propria immagine corporea e, dunque, il cibo.

Un terreno fertile all’anoressia può essere una madre esigente, centrata sui propri bisogni e desideri, e una figlia che non ha la forza o il carattere di non piegarsi a tale situazione. La bambina dovrà realizzare l’ideale della madre negando la realtà individuale e la capacità di vivere autonomamente.

Se vuole esistere e sentirsi amata dalla propria madre, proverà ad essere come l’immagine della figlia desiderata da lei e riflettere le sue aspettative.

Per troppo tempo è stata una bambina saggia e tranquilla e diventata adulta sembra dire: “Hai sempre voluto che io fossi come tu volevi; ora sono io che decido cosa mangiare e come modellarmi”. Finalmente è lei ad avere il controllo sul suo corpo, modellandolo secondo il proprio ideale. Capovolge la sua relazione di dipendenza occupando la posizione di onnipotente. Con il sintomo può controllare sia il proprio corpo, sia le persone che gli sono care, per le quali doveva conformare la propria immagine, secondo il loro desiderio.

Ha paura che ciò che accade all’interno di sé possa distruggere l’immagine che aveva modellato e che le permetteva di sentirsi amata; quindi, per preservare questa immagine, mostra un’immagine falsata ed occupa di nuovo la posizione della bambina chiamata a realizzare un ideale che non le appartiene.

Quando i primi segni della pubertà compaiono, il soggetto si trova di fronte a trasformazioni fisiche e psichiche complesse che implicano la riattualizzazione di diverse problematiche infantili. Il dimagrimento rappresenta il tentativo di ritrovare il corpo del periodo della latenza, il corpo infantile dove non appaiono caratteri di sessualità o di maternità.

Numerose ricerche riguardo al ruolo del padre nelle famiglie anoressiche evidenziano un carattere sottomesso e un’incapacità di imporre regole all’interno del sistema familiare. La funzione paterna sembra debole e conferma una certa logica dell’apparire: al di fuori della famiglia, come ad esempio nei luoghi di lavoro, questi padri si mostrano spesso conformisti nei confronti degli altri.

L’individuo anoressico presenta una florida e raffinata vita intellettiva: passioni sociali, filosofiche, estetiche, ecc., che però non arricchiscono la creatività personale essendo dei tentativi mal riusciti di sublimare un mondo interno in crisi. È una lotta contro il bisogno di amore, di dipendere, di legarsi, di alimentarsi e un tentativo di controllare e negare il vuoto.

Partendo dalla definizione che J. Lacan da dell’amore: “ L’amore è dare all’altro quello che non si ha”, M. Recalcati definisce l’anoressia-bulimia non come una malattia dell’appetito, ma come una malattia dell’amore. L’anoressica rifiuta il cibo perché non si accontenta che le venga dato soltanto ciò che l’altro ha: non vuole cibo, ma la mancanza, l’amore.

Nei primi momenti di vita il neonato emette delle urla affinché la madre possa soddisfare i suoi bisogni, tale richiesta non viene espressa dal bambino solo per ottenere la materialità dell’oggetto, ma si trasforma in una domanda d’amore. Il bambino cerca quel “niente” che gli permette di fare di nuovo la domanda d’amore. È fondamentale che la madre mantenga uno scarto tra il bisogno e la domanda, permettendo al desiderio di venir fuori.

Il sintomo dell’anoressia, dunque, sarebbe una reazione a questo “niente”, il rifiuto dell’oggetto di soddisfacimento del bisogno.

Si disegna così una doppia faccia dell’anoressia: da una parte è una malattia dell’amore, dall’altra il cancellare il desiderio dal corpo, rifiutando un oggetto del bisogno come il cibo.

L’approccio psicoterapeutico alla relazione patologica con il cibo deve essere inserito all’interno di un trattamento multidisciplinare in cui interagiscono tra loro diverse figure professionali e sarà indispensabile, inoltre, il nutrimento dato da buone relazioni, calde e confortevoli.

Perfezionismo e Fallimento

IL PERFEZIONISMO

 

“Non si può giocare davvero a nessun gioco se si sa in anticipo di vincere sempre.”
Massimo Recalcati

 

 

Il perfezionismo è una caratteristica personale che si manifesta attraverso molteplici comportamenti, credenze, stati d’animo, modi di affrontare la vita. E’ la consuetudine ad esigere da sé stessi una performance di qualità maggiore rispetto a quella richiesta dalla situazione che si sta affrontando.

L’individuo ipercritica il proprio comportamento e vive in uno stato d’ansia costante, causato proprio dal bisogno di fare sempre di più. Sono pervasivi la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; dunque, il soggetto tende a sottolineare sempre i propri errori. Questo determina un abbassamento dell’autostima e la convinzione che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare assiduamente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati.

Secondo Karen Horney (1950) la psicopatologia insorge quando il comportamento è guidato da strategie finalizzate a difendersi dall’ansia piuttosto che dalla tendenza a ricercare la realizzazione di sé. Tra queste strategie si colloca lo stabilire degli standard morali ed intellettuali eccessivamente alti. Dunque, un’immagine di sé idealizzata e perfezionistica garantisce un senso di valore personale, ma il constatare di non essere all’altezza di questa immagine può essere devastante per il soggetto. L’immagine di sè così idealizzata richiede un codice di condotta severo e moralistico. Alcune persone tentano di ottenere la perfezione stabilendo una lista di rigidi dictat che indicano il giusto comportamento da mettere in atto e la giusta punizione per il fallimento.

Missildine (1963) introduce una distinzione fra il soggetto perfezionista e quello professionalmente competente, che trae soddisfazione e piacere dal fare un buon lavoro. In quest’ultimo caso, il risultato positivo incrementa la propria autostima.

Il perfezionista, invece, non trae soddisfazione da un lavoro ben svolto ma ha sempre la percezione che avrebbe potuto farlo meglio e che tutto ciò che non è perfetto è un fallimento. La temporanea depressione che ne deriva alimenta la speranza di poter fare meglio in futuro, finché il carico da sopportare non diventa troppo grande. Missildine, inoltre, ritiene che aspettative genitoriali troppo alte portino i bambini a non sentire mai di aver fatto le cose sufficientemente bene da essere accettate. Alcuni iniziano a pensare che sia necessario essere impeccabili per essere amati, anziché accettati per come si è. Quello che il bambino ottiene con una prestazione non impeccabile è la promessa di accettazione se la prossima volta dimostrerà di far meglio.

Tali genitori favoriscono lo sviluppo di bambini sempre alla ricerca della perfezione, ma nello stesso tempo ansiosi, insicuri e incapaci di accettare e capire quale dovrebbe essere una performance sufficientemente buona. Hollender (1965) descrive così l’esperienza del bambino: «Se mi impegnassi di più, se facessi un po’ meglio, se diventassi perfetto i miei genitori mi amerebbero». Questo sviluppo è così inconsapevole che i genitori non si rendono conto dell’effetto che le loro aspettative hanno sui figli.

Da adulto, nessun livello di realizzazione può far sentire il perfezionista una persona affermata e nessun successo può ritenersi abbastanza per qualcuno che cresce in questo modo; anche il più piccolo errore può causare grandi sofferenze. Ogni azione è guidata dalla paura del fallimento e seguita dalla pesante sensazione del «avrei potuto fare meglio».

Hollender (1965) ipotizza che i perfezionisti siano guidati ad agire in maniera perfetta dall’autocritica piuttosto che da qualsiasi desiderio di acquisire padronanza o competenza. La stima di se stessi dipende da come gli altri li valutano e quindi, devono sforzarsi costantemente per soddisfare quelle aspettative, piuttosto che sviluppare un chiaro senso di sé. Questi standard irrazionali, sebbene possano derivare dai genitori, presto diventano parte dei criteri personali su cui si costruisce la propria autostima.

Il perfezionismo, quindi, va distinto dalla “salutare ricerca di eccellere” (Burns 1993): funzionale, positiva e associata a soddisfazione personale. Quest’ultima porta ad un aumento dell’autostima, creatività ed entusiasmo; l’errore è considerato come una possibilità di apprendimento.

Il perfezionismo patologico, invece, è caratterizzato: dalla paura di fallire, dall’ insoddisfazione per i propri risultati, da autocritiche; dal pensiero tutto o nulla (ogni cosa che non è perfetta è un fallimento); dalla preoccupazione di essere valutati e giudicati negativamente dagli altri; dal pensiero catastrofico; da standard inflessibili, elevati e irrealistici, da eccesso di responsabilità personale e dal bisogno di controllo sugli eventi; da doverizzazioni e confronti sociali inappropriati.

 

BIBLIOGRAFIA:

LOMBARDO C., VIOLANI C., (2011), Quando “Perfetto” non è abbastanza. Conseguenze Negative del Perfezionismo. Collana: «Psicologicamente. Collana dei Dipartimenti di Psicologia – Sapienza Università di Roma».

GUARDINI S. (2004), Cognitivismo clinico. Rassegne  1,1, 65-76. Perfezionismo clinico. Verona

Riconoscere la violenza

        “Canto delle donne”

Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio,

Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia,

Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.

Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.

Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.

Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.

Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.

Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.

Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.

Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.

Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.

Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.

Alda Merini

 

Non esiste violenza fisica senza violenza psicologica

 

La violenza psicologica riguarda una serie di atteggiamenti volti a sottomettere l’altro, controllarlo, denigrarlo e negare il suo modo di essere. È una forma di violenza molto sottile che inizia con uno sguardo, una parola sprezzante, umiliante o con tono minaccioso. La vittima spesso dubita di se stessa e di quello che sta vivendo. La violenza psicologica non si vede, prende di mira le emozioni e le fragilità emotive. La vittima si sente spaventata, tesa e sottomessa, diviene incapace di opporre resistenza e deprivata di senso critico, al punto di considerare normale ciò che sta vivendo.

L’ aggressore riesce a deformare tutto ciò che la vittima dice, destabilizzandola e riuscendo a farla sentire in colpa e responsabile di ciò che subisce. L’ aggressore si discolpa, è l’altro ad essere pazzo, depresso, isterico e paranoico. In questo modo la vittima non riesce a difendersi e arriva a dubitare della realtà di ciò che le accade. L’ aggressore vuole il potere e induce l’altro a pensare che tutto ciò che viene fatto, anche il male, è per il suo bene. La vittima finisce per interiorizzare ciò che le accade e la violenza subita può diventare violenza autodiretta e manifestarsi in forme diverse, come in disturbi psicosomatici.

Da questo tipo di violenza anche i più forti possono essere raggirati e spezzati, è difficile parlarne e prenderne consapevolezza, reagire e ammettere di essere stati ingannati e maltrattati. Tutto quello che non viene verbalizzato e affrontato rischia, quindi, di diventare una spirale di distruzione: ogni vittima rischia di riprodurre su se stessa o sugli altri la propria violenza interiore.

Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più ad essere certi, essere indotti a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerti, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità“.

ANSIA! Conoscerla e affrontarla

 

Persino le mie ansie hanno l’ansia.

CHARLIE BROWN

 

Ansia fisiologica e Ansia patologica

L’ansia fisiologica è una condizione comune e coincide con uno stato di allarme in risposta a una situazione percepita come stressante e pericolosa e con la sensazione che qualcosa di negativo stia per accadere.

Lo stato di allarme attiva una serie di modificazioni fisiche: palpitazioni, tachicardia, tremori, sudorazione, dispnea, sensazione di stordimento o soffocamento, irrequietezza motoria, dolori gastrici, nausea ecc., e psicologiche: apprensione, insicurezza e tensione emotiva.

L’ansia fisiologica ha una funzione adattiva; l’ansia patologica, invece, non è vantaggiosa per l’individuo.

Tre criteri fondamentali ci aiutano a distinguere tra uno stato d’ansia normale e uno stato d’ansia patologico: il contesto che innesca la reazione d’allarme (la reazione è incongrua rispetto alla situazione scatenante); l’intensità, la frequenza delle reazioni ansiose e la loro pervasività nella vita affettiva, sociale e professionale.

Il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) include nella categoria dei disturbi d’ansia: il disturbo d’ansia di separazione, il mutismo selettivo, la fobia specifica, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata, il disturbo d’ansia indotto da sostanze /farmaci, il disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica, il disturbo d’ansia con altra specificazione e senza specificazione.

Disturbo d’ansia di separazione

Il disturbo d’ansia di separazione è caratterizzato dalla presenza di ansia e paura persistenti e inappropriate che si manifestano in prossimità delle separazioni dalle figure di attaccamento. La paura della separazione costituisce l’oggetto principale dell’ansia e si manifesta per la prima volta nell’infanzia. I sintomi principali sono: rifiuto ad allontanarsi da casa, preoccupazione per i potenziali pericoli che possono portare alla perdita delle figure di riferimento, incubi notturni e lamentele fisiche ripetute.

Mutismo selettivo

Il mutismo selettivo limita il funzionamento sociale e interpersonale; è caratterizzato dall’incapacità, totale e persistente, di parlare in determinate situazioni sociali. L’uso del linguaggio resta, invece, appropriato in altre situazioni familiari.

Fobie specifiche

Si tratta di disturbi caratterizzati da un timore esagerato e irrazionale di una situazione o di un oggetto specifico e l’esposizione allo stimolo fobico determina inevitabilmente una crisi d’ansia. Tale esposizione viene evitata in ogni modo dal soggetto che riconosce l’irrazionalità della sua paura ma non è in grado di vincerla.

Disturbo d’ansia sociale

Nell’ansia sociale il soggetto prova ansia e timore irrazionale quando deve parlare in pubblico, quando si trova al centro dell’attenzione o deve interagire con persone di cui teme il giudizio. Tali paure conducono all’evitamento delle situazioni sociali e possono compromettere le condizioni di vita del soggetto. Le fobie sociali possono presentarsi come lamentele relative al timore di arrossire, al tremore delle mani, alla nausea o all’urgenza di urinare; l’individuo è convinto che una di queste manifestazioni sia il problema principale. I sintomi possono progredire fino al cosiddetto “attacco di panico”.

Attacco di panico

L’attacco di panico è una condizione che si manifesta improvvisamente e in assenza di stimoli obiettivi; l’individuo sperimenta un’intensa paura, disagio, ansia e sintomi somatici e psichici che raggiungono il picco in pochi minuti. La sensazione è quella di essere in grave pericolo e la sintomatologia somatica, in genere, induce il soggetto a recarsi al pronto soccorso, nella convinzione di avere un attacco cardiaco. I principali sintomi psichici sono: paura di perdere il controllo, di impazzire, derealizzazione e depersonalizzione; i sintomi somatici, invece, comprendono: palpitazioni, tachicardia, sudorazione, tremori, paura di morire ecc..

Disturbo di panico

Il disturbo di panico si manifesta con un primo attacco, improvviso e ingiustificato, vissuto in modo angosciante e disturbante. La crisi d’ansia dura al massimo 20 minuti e inizia spesso con una sintomatologia fisica e psichica. A questo primo attacco seguono altre crisi di panico con una frequenza variabile che va da pochi attacchi nell’arco di un anno a diversi attacchi al giorno. Il soggetto mette in atto delle condotte di evitamento che lo inducono a rinunciare e a limitare i suoi spostamenti fino a non uscire più di casa senza accompagnatore.

Agorafobia

L’agorafobia è un’ansia relativa al trovarsi in luoghi dai quali può essere difficile o imbarazzante allontanarsi o nei quali non è possibile ricevere aiuto nel caso si verifichi un attacco di panico. I timori agorafobici riguardano situazioni specifiche che il soggetto evita o sopporta con estremo disagio. Le situazioni sono molteplici, ad esempio: camminare per strada da soli, trovarsi tra la folla, utilizzare trasporti pubblici, trovarsi in spazi aperti (mercati, ponti) o chiusi (teatri, cinema).

Disturbo d’ansia generalizzata

Il disturbo d’ansia generalizzata si caratterizza per la presenza di ansia e preoccupazione eccessive, per la maggior parte dei giorni e per almeno sei mesi. La preoccupazione è sproporzionata rispetto alla situazione attesa ed è difficile da gestire. L’individuo è costantemente in apprensione, presenta disturbi del sonno, sintomi fisici (irrequietezza, tensione muscolare, vuoti di memoria, ecc…), tali da provocare marcato disagio e interferire con il funzionamento dell’individuo in aree importanti della vita.

Il terapeuta psicodinamico individua ed esplora i diversi aspetti intrapsichici, relazionali ed interpersonali del paziente, al fine di aiutarlo a riconoscerli, gestirli e risolverli.

L’individuo che intraprende una psicoterapia psicodinamica è un partecipante attivo all’interno di un processo esplorativo e deve sentirsi libero di poter riflettere ed analizzare con calma ciò che prova.

Tutti i disturbi d’ansia trovano la migliore soluzione terapeutica nella combinazione di un trattamento farmacologico e psicologico (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

 

BIBLIOGRAFIA

Lingiardi V., Gazzillo F., (2014), La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento. Milano: Raffaello Cortina.

Gelosia e umiliazione: “Tu non mi ami!”

La gelosia non è una reazione così semplice e naturale come crediamo; spesso, infatti, si è gelosi senza una reale motivazione. Una tipica situazione è quella della rivalità in amore: nella misura in cui si manifesta come una reazione d’odio e di aggressività a una perdita reale o minacciata, è tanto inevitabile quanto ogni reazione di questo tipo.

Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione per aver danneggiato la sicurezza e la fiducia in se stessi. Tali perdite non sono sentite consciamente da una persona gelosa, al contrario, quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente arrabbiato e più è depresso.

Non essere amato o credere di non esserlo, significa inconsciamente che non è da amare, che è odioso e pieno di odio. Sente di essere stato abbandonato e disprezzato dalla persona che ama perchè non è abbastanza buono per lei. La depressione, le paure di solitudine e la sensazione di essere vulnerabile di fronte al pericolo che questo pensiero di non essere amabile fa sorgere in lui, sono insopportabili. Odiando e condannando l’altro, in questo caso il rivale in amore, riusciamo a mitigare l’intensità della gelosia e l’odio può essere rivolto contro di lui senza senso di colpa.

Secondo J. Riviere, quando qualcuno inconsciamente si sente insufficiente in amore e teme che questa sua insufficienza possa essere scoperta e palesata dal suo partner in amore, inizia ad essere geloso.

L’uomo che ha perduto o pensa di perdere la persona che ama, reagisce non solo alla perdita dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore come prova di fronte a se stesso del proprio valore (M. Klein; J. Riviere., 1969).