Ricerca sul Sito

Category Archives: Depressione

Il lutto normale e patologico

Uno degli aspetti più complessi del lutto è quello di stabilire la differenza tra lutto normale e patologico; anche la scelta dei termini utilizzati per definirli ha suscitato, infatti, controversie.

Alcuni autori restringono il termine mourning (lutto) al lutto patologico mentre il termine grief (dolore) alla reazione normale; altri autori utilizzano invece, la denominazione mourning esclusivamente ai processi con un’evoluzione positiva.

Bowlby utilizza il termine grief per indicare le condizioni soggettive che emergono successivamente alla perdita ed accompagnano il lutto, mentre, il termine mourning, viene utilizzato dall’autore per indicare tutti i processi psicologici originati dalla perdita, sia consci che inconsci (Bowlby J., 1983; Grinberg L., 1971).

La tesi di Bowlby stabilisce un rapporto tra le reazioni patologiche osservate in pazienti adulti e le reazioni alla perdita osservabili nell’infanzia creando un nesso tra una condizione psichiatrica rilevabile in età adulta e l’esperienza riscontrata durante l’infanzia.

Bowlby ritiene che i processi di lutto verificatesi nei primi anni di vita tendono ad avere un’evoluzione patologica e rendono il soggetto più predisposto, rispetto ad altri, ad avere reazioni anomale difronte a perdite future.

L’autore sostiene che le perdite possono essere dannose e potenzialmente patogene sia se si verificano nei primi cinque anni di vita del bambino, sia in età più avanzata.

Bowlby osserva il comportamento di bambini di circa due e tre anni di età, i quali sono stati allontanati momentaneamente dalle cure materne e dall’ambiente familiare ed allevati da persone esterne. In seguito, attenziona l’atteggiamento del bambino al suo rientro in casa ed individua tre fasi diverse in base al suo comportamento nei confronti della madre: fase della disperazione, fase della protesta e fase del distacco.

La fase della protesta può durare diversi giorni ed è caratterizzata dai pianti e dalla collera del bambino che invoca il ritorno della madre e la rimprovera di averlo abbandonato. Successivamente appare più calmo ma profondamente preoccupato per l’assenza della madre; tuttavia, sembra ancora fiducioso nel suo ritorno.

La fase della disperazione insorge dal momento in cui la speranza nel ritorno della madre viene meno. Queste due fasi spesso si alternano e portano alla terza fase, quella del distacco, in cui il bambino sembra essersi dimenticato della madre ed al suo ritorno reagisce con indifferenza e disinteresse.

La durata del distacco del bambino appare correlata con la durata del periodo di allontanamento.

Bowlby sostiene che il distacco è il risultato di un processo difensivo regolare nel lutto in qualsiasi età e che tali reazioni caratterizzano tutte le forme del lutto.

La collera può essere considerata come la prima reazione alla perdita della persona amata e parte integrante della reazione di dolore. La sua funzione sembra essere quella di recuperare la persona persa pur sapendo che il tentativo è vano; condizione necessaria al fine di accettare il proprio fallimento, assumere l’irrimediabilità della perdita e dunque, attraversare un decorso normale del lutto.

Nel lutto patologico il soggetto non esprime l’impulso a recuperare la persona persa e la collera per essere stato abbandonato; reprime tali espressioni che, però, continuano a vivere all’interno dell’individuo, influenzando in modo distorto sia le sue sensazioni che il suo comportamento.

Nell’infanzia e nel lutto patologico i processi difensivi appaiono accelerati e gli impulsi a recuperare la persona amata perduta possono persistere, dando origine anche a gravi conseguenze.

Freud (1938) sosteneva che in seguito ad una perdita, oltre alla repressione, può attuarsi la dissociazione dell’Io: la parte nascosta, ma conscia della personalità, nega la perdita e sostiene il suo ritorno; allo stesso tempo, un’altra parte condivide all’esterno l’irrimediabilità della perdita.

Bowlby attraverso l’analisi di ricerche che mirano a descrivere la reazione tipica alla perdita di un coniuge nel primo anno successivo alla sua morte, individua quattro fasi nel decorso del lutto: fase di stordimento, fase dello struggimento, fase di disorganizzazione e disperazione e fase di riorganizzazione.

La fase di stordimento può durare da poche ore a una settimana e può essere interrotta da stati di angoscia o collera anche molto intensi. Ad esempio, in seguito alla notizia della perdita del marito, la vedova può sentirsi incapace di accettare la notizia; non riesce ad accettare la morte e può mostrare una calma innaturale che talvolta, può essere interrotta da sentimenti come la collera o il panico.

Nella fase di ricerca e struggimento per la persona perduta la vedova inizia a rendersi conto dell’irrimediabilità della perdita e manifesta angoscia, dolori e pianto contemporaneamente a irrequietezza ed insonnia.

Il suo pensiero è spesso rivolto al marito e percepisce la sensazione della sua presenza, interpretando rumori o segni come manifestazioni del suo ritorno.

Tali espressioni sono comuni a tutte le vedove e dunque, sostiene Bowlby, costituiscono insieme alla collera, un aspetto normale del dolore e del lutto.

Nel lutto sano la necessità di cercare e recuperare la figura scomparsa tende a diminuire con il tempo; nel decorso del lutto patologico invece, tale ricerca persiste in modo intenso e viene espressa in diverse forme distorte e mascherate.

Il pianto, la collera, l’ingratitudine e la ricerca incessante della figura perduta vanno considerati come aspetti tipici della seconda fase del lutto e tentativi di ritrovare e recuperare la persona persa.

In seguito ad una perdita la persona può desiderare di liberarsi dei ricordi del defunto oscillando tra impulsi incompatibili: voler conservare i ricordi o volersene disfare.

La fase di disorganizzazione, disperazione e riorganizzazione comporta la capacità di riuscire a tollerare il tormento emotivo e la sofferenza che il decorso del lutto porta con sé, ammettere il carattere definitivo della morte ed accettare che la propria vita abbia bisogno di una ristrutturazione.

I bambini spesso reagiscono alla perdita negando la sua irrimediabilità e continuano ad aspettarsi il ritorno del genitore.

Secondo Bowlby di fronte ad un lutto sia gli adulti che i bambini necessitano di una persona di fiducia con la quale possano gradualmente stabilire un legame e dunque, accettare definitivamente la perdita e riorganizzare il proprio mondo interno.

Il terapeuta di una persona colpita da una perdita deve prendere in considerazione le sue speranze, i suoi desideri, i suoi rimpianti e i rimproveri che l’affliggono, rispettando le sue sensazioni, seppur illusorie, senza necessariamente intervenire a favore della realtà. Nonostante sia un percorso lungo e difficile, il paziente deve avere la possibilità di esprimere la rabbia per l’abbandono, la collera e la paura della solitudine per poter andare avanti.

Nel lutto patologico le reazioni emotive possono essere violente e prolungate nel tempo; il dolore sembra essere assente mentre il rancore e gli autorimproveri appaiono prevalenti. Tali caratteristiche del lutto accompagnate da depressione, angoscia, ipocondria o alcolismo, possono essere definite come lutto cronico.

Il lutto patologico può manifestarsi anche nel suo contrario, ovvero nell’assenza prolungata di lutto cosciente: la vita del soggetto non sembra stravolta dalla perdita; sono spesso individui autosufficienti, indipendenti e sprezzanti dei sentimenti. Appaiono impegnati ed efficienti ma possono presentare insonnia, tensione, irritabilità e sintomi fisici, apparentemente inspiegabili.

In entrambe le forme di lutto patologico la perdita viene considerata come reversibile e può continuare l’impulso a ricercare il defunto, la collera e l’autorimprovero, mentre la tristezza ed il dolore vengono a mancare.

L’assenza di lutto conscio può essere considerata come un’estensione della fase di stordimento, mentre, le fasi del lutto cronico possono essere considerate come estensioni patologiche della fase di struggimento e ricerca e della disorganizzazione e disperazione.

Il lutto patologico può manifestarsi anche attraverso l’euforia: la reazione euforica alla morte può essere l’esito del rifiuto nel credere che la perdita sia realmente avvenuta o, al contrario, nell’assumere che abbia migliorato la condizione di chi è rimasto in vita.

I processi difensivi messi in atto dal soggetto, al fine di mitigare la sofferenza di una perdita, possono trovarsi sia nelle varianti sane che patologiche di un lutto; ciò che li differenzia è la durata, la rigidità o l’influenza totale o parziale sul funzionamento mentale.

Durante il decorso di un lutto patologico può verificarsi, ad esempio, lo spostamento della collera nei confronti di un’altra persona o altre difese come la rimozione, la scissione o la dissociazione.

Gorer (1965) ha introdotto il termine “mummificazione” per descrivere una forma patologica di reazione alla perdita in cui il soggetto rimasto in vita sembra essere convinto del ritorno del defunto e tende a conservare tutti i suoi oggetti personali in modo che possa trovarli al suo rientro. Sul versante opposto invece, alcune persone che evitano il lutto, tendono a disfarsi di tutto ciò che possa ricordargli la persona scomparsa.

Coloro i quali non hanno vissuto coscientemente il lutto possono presentare forti reazioni emotive e forme di depressione; gli elementi scatenanti della crisi possono essere: la ricorrenza dell’anniversario della morte, un’altra perdita, il raggiungimento dell’età in cui è avvenuta la morte, un’eventuale altra perdita avvenuta ad una persona con la quale il soggetto si è identificato.

Bowlby sostiene che tra le reazioni patologiche alla perdita si può verificare la collocazione impropria del defunto: in un animale, un oggetto, un’altra persona o dentro se stessi. Tale collocazione la si trova nel lutto cronico e se persiste e si stabilizza nel tempo può portare ad una mancata elaborazione del lutto.

L’identità della persona venuta a mancare assume una gravità particolare quando viene attribuita ad un bambino dal genitore che ha subito la perdita.

Cain e Cain (1964) sostengono che tali bambini possono essere stati concepiti come repliche di sorelle o fratelli morti.

Gli autori attraverso osservazioni ottenute su bambini provenienti da una clinica psichiatrica, sostengono che le madri presentavano ancora prima della perdita del proprio bambino una personalità patologica; avevano subito un elevato numero di perdite durante la propria infanzia ed avevano investito narcisisticamente sul proprio figlio quando era ancora in vita.

Bowlby ipotizza che alcuni tipi di personalità siano più vulnerabili alla perdita rispetto ad altri.

Nel determinare il decorso del lutto ha un’importanza rilevante: l’identità o il ruolo della persona perduta, le cause della morte, l’età ed il sesso della persona che resta, le circostanze sociali e psicologiche, la personalità del soggetto ed il tipo di organizzazione del suo comportamento di attaccamento.

Freud (1915) evidenzia la presenza di rapporti ansiosi e ambivalenti sin dall’infanzia in persone che hanno successivamente manifestato disturbi depressivi in seguito ad una perdita; sottolinea la presenza di una fissazione all’oggetto d’amore e difficoltà nel tollerare frustrazioni e delusioni.

Bowlby trae dunque, alcune conclusioni: la maggior parte degli individui che reagiscono alla perdita con un lutto patologico, secondo l’autore, presenta un attaccamento insicuro e ansioso, è incline a prendersi cura in modo coatto di altri, mostra un’autosufficienza emotiva precaria e una forte ambivalenza.

In particolare, asserisce che i disturbi di personalità presenti nel lutto patologico sono il risultato di deviazioni nello sviluppo dell’individuo durante la prima infanzia e l’adolescenza. Alcune deviazioni nascono da rapporti e risposte discontinue da parte di figure parentali nei confronti del bambino e possono tradursi in un attaccamento ansioso e insicuro o in una vigorosa autosufficienza (Bowlby J., 1979; Bowlby J., 1983).

Racamier definisce il lutto come un processo psichico fondamentale per la psiche che si svolge nel corso dell’intera vita. È un processo maturativo universale ed originario; inizia con la vita stessa e termina con la morte.
Il lutto avviene gradualmente e può essere considerato come un processo, un affetto o un lavoro.
Secondo l’autore, non si verifica soltanto in seguito alla perdita dell’oggetto completa ma anche dopo un distacco o in seguito alle esigenze della crescita o alle vicissitudini della vita.

L’Io fin dalla prima infanzia si confronta con la necessità di rinunciare al possesso totale dell’oggetto e compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta e tramite questa rinuncia fonda le sue stesse origini, opera la scoperta dell’oggetto e del Sé e inventa l’interiorità.

Racamier sostiene che l’attraversamento del lutto originario comporta un cambiamento per la psiche; è un processo in cui nulla resterà come prima e che non smetterà mai di compiersi.
La madre ed il bambino sono immersi fin da subito in una relazione di reciproca seduzione (seduzione narcisistica) che mira ad escludere e neutralizzare le tensioni provenienti sia dall’interno che dall’esterno ed a rifiutare la differenza, quale presupposto della separazione e del desiderio.

Nel bambino e nella madre agiscono delle tensioni che tendono alla rottura dell’unisono simbiotico; nel bambino operano spinte vitali aggressive, il desiderio di scoperta e di crescita, mentre, nella madre le forze sono complementari e ambivalenti. Il bambino volge le spalle alla madre ponendo fine alla relazione di seduzione narcisistica; dovrà quindi, fare il lutto dell’illusione di appartenenza e onnipotenza totale.

Il bambino scopre l’oggetto in quanto tale soltanto dopo averlo perduto; scopre la madre e la desidera. L’oggetto perduto come oggetto assoluto esterno viene interiorizzato e ritrovato come oggetto interno. L’attraversamento del lutto originario è il presupposto principale per ogni possibile crescita; senza un lutto compiuto non vi è autonomia né per il soggetto né per la sua famiglia.

L’ammirazione provata dalla madre nei confronti del bambino che cresce costituirà tutto ciò che gli serve per andare avanti in una serie di altri lutti originari. Il lutto una volta compiuto lascia una cicatrice originaria indispensabile per conferire all’Io la capacità di tollerare i lutti successivi.

L’attraversamento del lutto originario permette di investire sull’oggetto e su se stessi e di acquisire una sufficiente fiducia di base; al contrario, quando l’Io non riesce ad attraversare il lutto originario, prevale la sfiducia di base nei confronti di se stessi, dell’oggetto e del mondo.

Il lavoro del lutto conduce alla riscoperta di un oggetto e alla possibilità di affrontare grandi e piccoli lutti futuri; tuttavia, non porta ad una immunità totale. Il lutto originario è il modello di ogni crisi o cambiamento a venire; nessun lutto potrà essere superato se non successivamente al processo del lutto originario.

Il lutto potrà essere realizzabile se l’investimento sull’oggetto perduto non è stato eccessivamente ambivalente o narcisistico: se l’oggetto è stato odiato, il lutto può trasformarsi in melanconia e l’oggetto viene introiettato ed attaccato dall’interno per essere conservato; l’oggetto narcisistico invece, non può essere perduto in quanto unito
all’oggetto che lo possiede.

Racamier afferma che quando il lutto fallisce sfocia nella depressione; l’Io non riesce sempre a portare avanti il lutto o a formare una depressione e può dare origine a lutti e depressioni espulse.
L’autore parla di “lutto fissato” per indicare un lutto sospeso, un lutto che non fa rumore, si ferma e si fissa subito dopo esser iniziato; le conseguenze sembrano appartenere al registro somatico.
Il “lutto occluso” può essere definito come il contrario del precedente: il tormento della perdita viene inflitta ad altri; i bambini rimpiazzano figli precedentemente deceduti.

Nell’espulsione del lutto intervengono scissione e diniego: l’Io nega di essere in lutto e depresso e si separa dal resto della psiche che non è riuscito a distruggere.
Il diniego “sfigura” ciò che attacca, mentre, la scissione “immobilizza” ciò da cui l’Io si separa: tale lutto dunque, scisso e denegato, sarà anche evacuato e defantasmato.

Il lavoro del lutto sarà quindi, sfigurato, amalgamato, reso irriconoscibile e trasmesso da una persona all’altra; i figli diventano portabagagli e le loro origini appaiono confuse ed interrotte. Secondo Racamier in ogni depressione o lutto fissato, amalgamato o espulso è possibile rintracciare il segreto o l’incesto.

Al fine di evitare il vissuto di un lutto, l’Io può ricorrere alla suicidosi: minacce e tentativi ripetuti di suicidio che hanno la funzione di sfuggire al dolore e al rischio depressivo; il lutto viene così ripudiato ed espulso, in forma sfigurata, attraverso gli agiti.

Nella suicidosi l’attività fantasmatica è siderata, inerte e vacante ed ogni affetto, così come la depressione, è evitato. Il mondo esterno appare estremamente coinvolto, tanto che, non è il paziente a tormentarsi, ma più il suo ambiente, spesso manipolato ed influenzato.

Racamier afferma che ogni stato depressivo è il fallimento di un lutto e dunque, per poter uscire da una depressione è fondamentale passare attraverso il lutto; accompagnandolo, senza soffocarlo. Attraverso il lavoro di psicoterapia sarà possibile permettere alla porta del lutto di aprirsi e liberare la colpa intrisa nel lutto che genera depressioni.

Secondo l’autore soltanto attraverso il lavoro psicoanalitico sarà possibile restituire al soggetto il processo del lutto espulso; tuttavia, questo ritorno può essere rifiutato e dunque, si dovrà restaurare il narcisismo ferito dell’Io screditato dall’oggetto espulso.

L’analista dovrà perdere l’oggetto, fare il lutto narcisistico della guarigione troppo desiderata e permettere così al paziente di crescere, ritrovare un’età e un avvenire (Racamier P.C., 1992).

 

 

Disturbi del Comportamento Alimentare: quando amare significa dare all’altro quello che non si ha

L’anoressia caratterizza ancora oggi il nostro tessuto sociale rappresentando un problema importante a partire soprattutto dall’adolescenza. Tuttavia, cresce l’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare tra i bambini in età prepubere e nella popolazione generale adulta.

Di solito, viene vista come una patologia che investe prevalentemente l’alimentazione, tralasciando facilmente tutto ciò che comporta il corpo e l’identità. Il sintomo anoressico è il segnale del fallimento dei processi di integrazione di parti della personalità in sviluppo, inerente al processo di costruzione dell’identità; quindi, è relativo al periodo dell’adolescenza e, dunque, al momento della definizione dell’identità sessuale e dell’acquisizione del corpo sessuato.

Il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) la colloca nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione, ponendo l’accento sul cibo. Tuttavia, è di fondamentale importanza considerare anche le alterazioni dell’immagine del corpo che possono manifestarsi con il desiderio di magrezza e con l’idea fissa di ingrassare.

Alcune persone si percepiscono grasse contrariamente alla realtà, alcune magre o snelle ma ritengono troppo voluminose alcune parti del proprio corpo; altre invece, si mostrano fiere del loro aspetto fisico. Nonostante tutto il corpo sia ridotto ad uno scheletro, un tratto di esso, ad esempio i fianchi, può imporsi ed influenzare la percezione di sé. La distorsione della propria immagine corporea allo specchio è severa e non in linea con le proprie aspettative ideali. Il soggetto ha sempre la sensazione di essere grasso e il timore di ingrassare; questo, lo porta inevitabilmente a vivere sempre delle restrizioni e a mantenere il controllo su di sé.

I livelli di autostima sono influenzati dalla forma fisica e dal peso corporeo; è come se il proprio valore passasse attraverso la capacità di controllare questi aspetti. La perdita di peso viene considerata come una straordinaria conquista, un elemento di trionfo rispetto alle esigenze del proprio corpo; mentre, l’incremento ponderale, viene percepito come un’inaccettabile perdita del controllo. Il timore di ingrassare non diminuisce con il dimagrimento, indice di un diniego della magrezza e della sua gravità.

Il soggetto presenta una scarsa consapevolezza della propria malattia che non viene vissuta come un disturbo e, dunque, non crede che dal ricevere aiuto possa nascere un miglioramento; la richiesta d’aiuto arriva solitamente da un familiare che tenta di affrontare il sintomo, soprattutto quando diventa severo e imponente.

Il sintomo anoressico permette così di occupare una posizione di onnipotenza; gli amici e la famiglia si mobilitano intorno all’individuo, l’anoressia diviene il tema principale delle conversazioni e delle preoccupazioni e il peso diventa un oggetto interessante di cui parlare. Questo aspetto può rivelarsi come un vantaggio nel soggetto che sta strutturando una patologia alimentare, poiché gli permette di ottenere una centratura narcisistica, uno degli aspetti nascosti della problematica anoressica.

Tali famiglie possono presentare un serio difetto di comunicazione intersoggettiva; al sintomo non viene attribuito alcun valore espressivo, viene privato delle emozioni e dei sentimenti e relegato al solo problema dietologico e gastroenterologico. Tutto sembra nascere da una questione estetica e superficiale che cela, però, il bisogno di controllare la propria immagine corporea e, dunque, il cibo.

Un terreno fertile all’anoressia può essere una madre esigente, centrata sui propri bisogni e desideri, e una figlia che non ha la forza o il carattere di non piegarsi a tale situazione. La bambina dovrà realizzare l’ideale della madre negando la realtà individuale e la capacità di vivere autonomamente.

Se vuole esistere e sentirsi amata dalla propria madre, proverà ad essere come l’immagine della figlia desiderata da lei e riflettere le sue aspettative.

Per troppo tempo è stata una bambina saggia e tranquilla e diventata adulta sembra dire: “Hai sempre voluto che io fossi come tu volevi; ora sono io che decido cosa mangiare e come modellarmi”. Finalmente è lei ad avere il controllo sul suo corpo, modellandolo secondo il proprio ideale. Capovolge la sua relazione di dipendenza occupando la posizione di onnipotente. Con il sintomo può controllare sia il proprio corpo, sia le persone che gli sono care, per le quali doveva conformare la propria immagine, secondo il loro desiderio.

Ha paura che ciò che accade all’interno di sé possa distruggere l’immagine che aveva modellato e che le permetteva di sentirsi amata; quindi, per preservare questa immagine, mostra un’immagine falsata ed occupa di nuovo la posizione della bambina chiamata a realizzare un ideale che non le appartiene.

Quando i primi segni della pubertà compaiono, il soggetto si trova di fronte a trasformazioni fisiche e psichiche complesse che implicano la riattualizzazione di diverse problematiche infantili. Il dimagrimento rappresenta il tentativo di ritrovare il corpo del periodo della latenza, il corpo infantile dove non appaiono caratteri di sessualità o di maternità.

Numerose ricerche riguardo al ruolo del padre nelle famiglie anoressiche evidenziano un carattere sottomesso e un’incapacità di imporre regole all’interno del sistema familiare. La funzione paterna sembra debole e conferma una certa logica dell’apparire: al di fuori della famiglia, come ad esempio nei luoghi di lavoro, questi padri si mostrano spesso conformisti nei confronti degli altri.

L’individuo anoressico presenta una florida e raffinata vita intellettiva: passioni sociali, filosofiche, estetiche, ecc., che però non arricchiscono la creatività personale essendo dei tentativi mal riusciti di sublimare un mondo interno in crisi. È una lotta contro il bisogno di amore, di dipendere, di legarsi, di alimentarsi e un tentativo di controllare e negare il vuoto.

Partendo dalla definizione che J. Lacan da dell’amore: “ L’amore è dare all’altro quello che non si ha”, M. Recalcati definisce l’anoressia-bulimia non come una malattia dell’appetito, ma come una malattia dell’amore. L’anoressica rifiuta il cibo perché non si accontenta che le venga dato soltanto ciò che l’altro ha: non vuole cibo, ma la mancanza, l’amore.

Nei primi momenti di vita il neonato emette delle urla affinché la madre possa soddisfare i suoi bisogni, tale richiesta non viene espressa dal bambino solo per ottenere la materialità dell’oggetto, ma si trasforma in una domanda d’amore. Il bambino cerca quel “niente” che gli permette di fare di nuovo la domanda d’amore. È fondamentale che la madre mantenga uno scarto tra il bisogno e la domanda, permettendo al desiderio di venir fuori.

Il sintomo dell’anoressia, dunque, sarebbe una reazione a questo “niente”, il rifiuto dell’oggetto di soddisfacimento del bisogno.

Si disegna così una doppia faccia dell’anoressia: da una parte è una malattia dell’amore, dall’altra il cancellare il desiderio dal corpo, rifiutando un oggetto del bisogno come il cibo.

L’approccio psicoterapeutico alla relazione patologica con il cibo deve essere inserito all’interno di un trattamento multidisciplinare in cui interagiscono tra loro diverse figure professionali e sarà indispensabile, inoltre, il nutrimento dato da buone relazioni, calde e confortevoli.

Perfezionismo e Fallimento

IL PERFEZIONISMO

 

“Non si può giocare davvero a nessun gioco se si sa in anticipo di vincere sempre.”
Massimo Recalcati

 

 

Il perfezionismo è una caratteristica personale che si manifesta attraverso molteplici comportamenti, credenze, stati d’animo, modi di affrontare la vita. E’ la consuetudine ad esigere da sé stessi una performance di qualità maggiore rispetto a quella richiesta dalla situazione che si sta affrontando.

L’individuo ipercritica il proprio comportamento e vive in uno stato d’ansia costante, causato proprio dal bisogno di fare sempre di più. Sono pervasivi la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; dunque, il soggetto tende a sottolineare sempre i propri errori. Questo determina un abbassamento dell’autostima e la convinzione che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare assiduamente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati.

Secondo Karen Horney (1950) la psicopatologia insorge quando il comportamento è guidato da strategie finalizzate a difendersi dall’ansia piuttosto che dalla tendenza a ricercare la realizzazione di sé. Tra queste strategie si colloca lo stabilire degli standard morali ed intellettuali eccessivamente alti. Dunque, un’immagine di sé idealizzata e perfezionistica garantisce un senso di valore personale, ma il constatare di non essere all’altezza di questa immagine può essere devastante per il soggetto. L’immagine di sè così idealizzata richiede un codice di condotta severo e moralistico. Alcune persone tentano di ottenere la perfezione stabilendo una lista di rigidi dictat che indicano il giusto comportamento da mettere in atto e la giusta punizione per il fallimento.

Missildine (1963) introduce una distinzione fra il soggetto perfezionista e quello professionalmente competente, che trae soddisfazione e piacere dal fare un buon lavoro. In quest’ultimo caso, il risultato positivo incrementa la propria autostima.

Il perfezionista, invece, non trae soddisfazione da un lavoro ben svolto ma ha sempre la percezione che avrebbe potuto farlo meglio e che tutto ciò che non è perfetto è un fallimento. La temporanea depressione che ne deriva alimenta la speranza di poter fare meglio in futuro, finché il carico da sopportare non diventa troppo grande. Missildine, inoltre, ritiene che aspettative genitoriali troppo alte portino i bambini a non sentire mai di aver fatto le cose sufficientemente bene da essere accettate. Alcuni iniziano a pensare che sia necessario essere impeccabili per essere amati, anziché accettati per come si è. Quello che il bambino ottiene con una prestazione non impeccabile è la promessa di accettazione se la prossima volta dimostrerà di far meglio.

Tali genitori favoriscono lo sviluppo di bambini sempre alla ricerca della perfezione, ma nello stesso tempo ansiosi, insicuri e incapaci di accettare e capire quale dovrebbe essere una performance sufficientemente buona. Hollender (1965) descrive così l’esperienza del bambino: «Se mi impegnassi di più, se facessi un po’ meglio, se diventassi perfetto i miei genitori mi amerebbero». Questo sviluppo è così inconsapevole che i genitori non si rendono conto dell’effetto che le loro aspettative hanno sui figli.

Da adulto, nessun livello di realizzazione può far sentire il perfezionista una persona affermata e nessun successo può ritenersi abbastanza per qualcuno che cresce in questo modo; anche il più piccolo errore può causare grandi sofferenze. Ogni azione è guidata dalla paura del fallimento e seguita dalla pesante sensazione del «avrei potuto fare meglio».

Hollender (1965) ipotizza che i perfezionisti siano guidati ad agire in maniera perfetta dall’autocritica piuttosto che da qualsiasi desiderio di acquisire padronanza o competenza. La stima di se stessi dipende da come gli altri li valutano e quindi, devono sforzarsi costantemente per soddisfare quelle aspettative, piuttosto che sviluppare un chiaro senso di sé. Questi standard irrazionali, sebbene possano derivare dai genitori, presto diventano parte dei criteri personali su cui si costruisce la propria autostima.

Il perfezionismo, quindi, va distinto dalla “salutare ricerca di eccellere” (Burns 1993): funzionale, positiva e associata a soddisfazione personale. Quest’ultima porta ad un aumento dell’autostima, creatività ed entusiasmo; l’errore è considerato come una possibilità di apprendimento.

Il perfezionismo patologico, invece, è caratterizzato: dalla paura di fallire, dall’ insoddisfazione per i propri risultati, da autocritiche; dal pensiero tutto o nulla (ogni cosa che non è perfetta è un fallimento); dalla preoccupazione di essere valutati e giudicati negativamente dagli altri; dal pensiero catastrofico; da standard inflessibili, elevati e irrealistici, da eccesso di responsabilità personale e dal bisogno di controllo sugli eventi; da doverizzazioni e confronti sociali inappropriati.

 

BIBLIOGRAFIA:

LOMBARDO C., VIOLANI C., (2011), Quando “Perfetto” non è abbastanza. Conseguenze Negative del Perfezionismo. Collana: «Psicologicamente. Collana dei Dipartimenti di Psicologia – Sapienza Università di Roma».

GUARDINI S. (2004), Cognitivismo clinico. Rassegne  1,1, 65-76. Perfezionismo clinico. Verona

Psicologia e Psicoterapia a L'Aquila Lara Lorenzetti

Il colloquio e la psicoterapia psicodinamica

Il colloquio è impiegato da diversi approcci psicoterapeutici, quale metodo elettivo, per lo sviluppo di un processo autoconoscitivo.

Al termine del processo diagnostico, lo psicoterapeuta, in base alla problematica ed alla struttura di personalità del soggetto, può proporre l’attuazione di una psicoterapia e, attraverso una restituzione, fornire all’individuo una chiave di lettura della propria storia in una serie di formulazioni chiare per il soggetto e aderenti ai suoi vissuti interni (Del Corno F., Lang M., 1999; Lis A. et al., 1995).

Indispensabile è un tempo per riflettere e pensare, che viene lasciato all’individuo affinchè maturi l’eventuale decisione di intraprendere una psicoterapia.

La psicoterapia psicodinamica è un tipo di approccio basato su presupposti teorici e tecnici di matrice psicoanalitica. Tale approccio rivolge una profonda attenzione all’analisi del transfert, delle resistenze e alla relazione terapeuta-paziente (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

L’assunto fondamentale alla base delle psicoterapie psicodinamiche è che non si possono modificare o comprendere comportamenti, pensieri e fantasie del soggetto, senza considerare le determinanti inconsce che influenzano ogni aspetto della vita dell’individuo.

Il presente può essere compreso solo tenendo conto delle esperienze passate del paziente; i vissuti infantili sono considerati determinanti nel plasmare la struttura e i contenuti dell’apparato psichico del soggetto adulto.

L’interiorizzazione di precoci esperienze di Sè in rapporto con l’altro e relativi stati affettivi a esse associati, creano strutture rappresentazionali complesse che costituiscono il mondo interno del soggetto.

Il terapeuta psicodinamico individua ed esplora i diversi aspetti intrapsichici, relazionali ed interpersonali del paziente, al fine di aiutarlo a riconoscerli, gestirli e risolverli.

Dovrà lavorare sull’individuazione e l’analisi dei modi difensivi con cui il soggetto cerca di negare o distorcere alcuni aspetti della propria esperienza. Le difese utilizzate dal paziente, forniscono al terapeuta, informazioni fondamentali riguardo il livello di funzionamento dell’individuo, la pianificazione del trattamento e l’individuazione degli obiettivi terapeutici (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Il sintomo ed i comportamenti sono considerati come riflessi di processi inconsci che difendono il soggetto da sentimenti e desideri rimossi (Gabbard G.O., 2014). I sintomi rapprersentano un soddisfacimento parziale, mascherato e distorto, sia di istanze dell’Es che di istanze del Super-io (Gislon M.C., 1988).

Nel colloquio, secondo Bergeret (1979), l’interesse dello psicologo non è rivolto nè al sintomo, nè alle sole manifestazioni somatiche. Tuttavia, il paziente, deve sentirsi autorizzato a soffermarsi sul sintomo, come e quando vuole (Bergeret J., 1979).

Il colloquio psicodinamico permette di comprendere i conflitti del paziente, come si pone in relazione alle persone della sua vita e raccogliere i dati necessari per la valutazione dei suoi bisogni. L’obiettivo principale è quello di stabilire una comprensione condivisa con il paziente, affinchè si senta considerato come una persona unica con problemi specifici.

L’individuo che intraprende una psicoterapia psicodinamica è un partecipante attivo all’interno di un processo esplorativo e deve sentirsi libero di poter riflettere ed analizzare con calma ciò che prova.

 

Bibliografia:

Bergeret J., (1979), Psicologia patologica. Teoria e clinica. Milano: Masson.

Del Corno F., Lang M., (1999),  Modelli di colloquio in psicologia clinica. Milano: Franco Angeli.

Gislon M.C., (1988), Il colloquio clinico e la diagnosi differernziale. Torino: Bollati Boringhieri.

Gabbard G.O., (2014), Psichiatria psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina, 2015

Lis A., Venuti P., De Zorzo M.R. (1995), Il colloquio come strumento psicologico. Firenze: Giunti

Lingiardi V., Gazzillo F., (2014), La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinicae diagnosi al servizio del trattamento. Milano: Raffaello Cortina.

 

Gelosia e umiliazione: “Tu non mi ami!”

La gelosia non è una reazione così semplice e naturale come crediamo; spesso, infatti, si è gelosi senza una reale motivazione. Una tipica situazione è quella della rivalità in amore: nella misura in cui si manifesta come una reazione d’odio e di aggressività a una perdita reale o minacciata, è tanto inevitabile quanto ogni reazione di questo tipo.

Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione per aver danneggiato la sicurezza e la fiducia in se stessi. Tali perdite non sono sentite consciamente da una persona gelosa, al contrario, quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente arrabbiato e più è depresso.

Non essere amato o credere di non esserlo, significa inconsciamente che non è da amare, che è odioso e pieno di odio. Sente di essere stato abbandonato e disprezzato dalla persona che ama perchè non è abbastanza buono per lei. La depressione, le paure di solitudine e la sensazione di essere vulnerabile di fronte al pericolo che questo pensiero di non essere amabile fa sorgere in lui, sono insopportabili. Odiando e condannando l’altro, in questo caso il rivale in amore, riusciamo a mitigare l’intensità della gelosia e l’odio può essere rivolto contro di lui senza senso di colpa.

Secondo J. Riviere, quando qualcuno inconsciamente si sente insufficiente in amore e teme che questa sua insufficienza possa essere scoperta e palesata dal suo partner in amore, inizia ad essere geloso.

L’uomo che ha perduto o pensa di perdere la persona che ama, reagisce non solo alla perdita dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore come prova di fronte a se stesso del proprio valore (M. Klein; J. Riviere., 1969).