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Monthly Archives: Gennaio 2023

Il Narcisismo

Nel linguaggio abituale il narcisista è un individuo che si preoccupa solo di se stesso, manca di interesse per gli altri, è avido ed egoista. I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono e negano i sentimenti che contraddicono l’immagine che vorrebbero mostrare. Tendono a essere seduttivi, manipolativi e ad ottenere potere e controllo sugli altri (Lowen A., 1985).

I disturbi narcisistici sono collocati lungo un continuum: da sano a patologico. A un estremo si colloca un’immagine iper-negativa di sé: sentimenti di inferiorità e di impotenza; all’altro, un’immagine iper-positiva con eccessiva considerazione di sé, sentimenti di superiorità e onnipotenza. Il narcisismo sano (capacità di riconoscere le proprie qualità positive e di regolare la propria autostima) si trova a metà tra questi due poli opposti (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Kernberg definisce il narcisista come un individuo che presenta intense ambizioni, fantasie grandiose, sentimenti di inferiorità e bisogno di essere ammirato ed approvato. Inoltre, è tipica: l’incertezza cronica, l’insoddisfazione nei confronti di se stessi, la crudeltà e lo sfruttamento nei confronti degli altri.

I narcisisti sono assorbiti dalla propria immagine e non riescono a distinguere tra l’immagine di chi credono di essere e l’immagine di chi effettivamente sono; perdendo così l’immagine reale di sé (Lowen A., 1985).

L’immagine del sè è eccessivamente idealizzata e viene negata in modo onnipotente qualsiasi cosa comprometta questo quadro. Tali soggetti possono facilmente fare propri valori e idee degli altri, oppure, al fine di evitare un’ invidia insopportabile, inconsciamente svalutano e distruggono quel che ricevono dagli altri. Rosenfeld (1971) sostiene che le personalità estremamente narcisistiche possono essere autodistruttive; manifestare un odio inconscio per tutto ciò che è buono e valido e sentirsi trionfanti e fiduciosi solo quando riescono a distruggere gli altri e vanificare gli sforzi di coloro che li amano (Kernberg O. F., 1987).

Rosenfeld (1987) individua due tipi di narcisista: a pelle spessa e a pelle sottile. Il narcisista a pelle spessa è caratterizzato da aggressività, arroganza, invadenza e distruttività; il narcisista a pelle sottile, invece, si contraddistingue per un sentimento di vergogna e di inferiorità, per la sensibilità alle critiche e dalla costante ricerca di approvazione (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

La caratteristica più rilevante del narcisista è la richiesta di attenzione che può operare a un livello molto sottile: implicitamente idealizza se stesso e può proiettare questa fantasia di appagamento del desiderio negli altri o in altri ambiti della propria vita. Questo dà luogo ad un “contratto narcisistico”: io ti incoraggio ad esaltare te stesso, tu fai lo stesso con me”; “tu idealizzi me, io idealizzo te”.

Alcuni utilizzano il linguaggio come un sistema di segni: le parole sono come espressioni del viso o del corpo ed hanno il fine di indicare ciò che procura piacere o dispiacere. Il narcisista per affermare l’intenzionalità preverbale del sé, utilizza: sopracciglia alzate; sussulti; cupe occhiate; silenzi; sospiri o colpi di tosse.  Il linguaggio li divide dall’egemonia dell’immagine e dall’utilizzo del non-verbale; utile, invece, per controllare e manipolare l’altro.

Il partner di un soggetto narcisista può rendersi conto che la generosità e l’apertura di quest’ultimo sono, in realtà, una forma di non-relazione e, se cerca risposte, va incontro a frasi del tipo: “Bene, questo è ciò che pensi tu. Questo invece è ciò che penso io. Ora la discussione finisce qui”.

Se il narcisista viene ulteriormente contrastato, l’aggressività può diventare evidente e manifestarsi con espressioni del tipo: “Lasciami stare, altrimenti…”.

L’altro deve soddisfare un bisogno: il narcisista necessita di vivere in modo stabile e prevedibile, quindi, l’altro deve essere affidabile, così da poter programmare le sue richieste all’interno del proprio sistema di vita e di relazione. Ad esempio, se egli sa che il proprio partner preferisce uno specifico programma televisivo, un gruppo musicale o di amici, questi oggetti saranno programmati all’interno di ciò che il narcisista fornisce, al fine di ottenere in cambio quelle ricompense delle quali il sè ha bisogno. Nei casi più gravi la consapevolezza di un sentimento interno di vuoto produce un senso di orrore, focalizzato sul fatto di rendersi conto di non aver vissuto realmente la propria vita come avrebbe potuto. Questo sentimento costituisce la causa di un enorme dolore mentale e di un acuto senso di perdita.

É possibile offrire ai pazienti narcisisti una relazione ed una ricostruzione storica ed aiutarli a comprendere meglio se stessi (Bollas C., 2022).

La chiave di ogni terapia è la comprensione; senza di essa nessun approccio o tecnica terapeutica è efficace a livello profondo (Lowen A., 1985).

Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino per sé al potere, al successo, alla ricchezza, e ammirino queste cose negli altri, sottovalutando i veri valori della vita.Freud, Il disagio della civiltà.

Psicoterapia L'Aquila Lorenzetti

Ritiro e Nuova Melanconia

In alcuni momenti della nostra vita avvertiamo il bisogno di restare soli, ritirarci dalla vita sociale ed affrontare il momento presente soltanto con le nostre risorse.

I comportamenti di ritiro sono frequenti nella vita di ognuno, senza rappresentare necessariamente un significato patologico. Tuttavia, in alcuni casi, l’inibizione sociale e l’isolamento evidenziano un profondo disagio.

Entro la prima età adulta può manifestarsi un pattern pervasivo di inibizione sociale, senso di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Nonostante il soggetto desideri entrare in relazione con l’altro, teme di essere respinto, escluso, umiliato e criticato; prova timidezza, imbarazzo, sentimenti di vergogna e di esclusione. Il soggetto evita attività che lo coinvolgono a livello interpersonale ed è riluttante a entrare in relazione con persone, a meno che non sia sicuro di piacere.

In ambito lavorativo può addirittura arrivare a rifiutare eventuali promozioni per paura che le nuove responsabilità possano comportare giudizi negativi da parte dei colleghi. La bassa autostima, il sentimento di inadeguatezza e i dubbi sulla propria attrattiva personale, lo portano a restare in disparte per timore che qualsiasi attenzione possa provocare sentimenti di vergogna; mostrandosi così inibito e goffo nelle situazioni interpersonali.

Lo stile di vita è dunque  limitato dall’estremo bisogno di sicurezze e certezze (Dimaggio, Semerari, 2003).

Per proteggersi da un ambiente percepito come rifiutante, il soggetto adotta, scegliendola attivamente, la condotta dell’evitamento. Tale atteggiamento comporta una progressiva chiusura sociale, che in questo caso, non riguarda l’ambito familiare di appartenenza. Quest’ultimo contesto, in realtà, se da una parte viene vissuto in modo conflittuale, dall’altra rende il soggetto fortemente dipendente da esso. L’evitamento è considerato, in effetti, dai familiari più uno stile di vita che un problema psicologico. Tali famiglie vengono spesso considerate dal soggetto come l’unico luogo sicuro a fronte di un mondo minaccioso e rifiutante.

La prospettiva psicodinamica si focalizza sul modo in cui le esperienze infantili possono portare a sviluppare un’ansia interpersonale duratura. Occorre, dunque, risalire alle origini, origini in cui compaiono esperienze infantili dolorose di estrema vergogna (Hansell, Damour, 2007). Si tratta di bambini esposti a eccessivi rimproveri e derisioni da parte di genitori severi, repressivi, rifiutanti e ridicolizzanti (Gabbard, 2015).

Si tratta, inoltre, di genitori poco propensi alla comunicazione emotiva e che scoraggiano il contatto fisico: i bambini possono, dunque, aver avuto la sensazione che i loro bisogni evolutivi fossero eccessivi o inappropriati.

Il bambino impara a non chiedere, a non esprimere emozioni e bisogni e a reprimere ogni espressione del sé perché sarebbe rifiutato o deriso, a propendere verso l’autonomia e l’autoregolazione evitando così esperienze di rifiuto, inadeguatezza e fallimento (Lingiardi, Gazzillo, 2014; Gabbard, 2015).

Spesso osserviamo delle forme di ritiro anche nei bambini e negli adolescenti: abbandonano il gruppo dei pari, restano a casa nella loro cameretta, si dedicano prevalentemente ad attività solitarie e mostrano disinteresse per la realtà che li circonda.

L’analisi del ritiro sociale dovrebbe indurre a una più approfondita riflessione sulle modalità di espressione del malessere e del disagio e come esso si manifesta soprattutto nei più giovani.

Recalcati (2019) sostiene che siamo di fronte a nuove forme di melanconia in cui non si riscontra più la sintomatologia classica della melanconia codificata da Freud: ritiro libidico, auto-denigrazione, auto-accusa, senso di colpa o delirio di rovina.

Di questo corredo resta il ritiro libidico come tendenza del soggetto alla chiusura, al rifiuto dei legami sociali, unito ad una restrizione della sua spinta vitale. Sembra palesarsi una pulsione che chiude il legame con la vita che conduce il soggetto a abbandonare il proprio desiderio. Davanti all’auto-flagellazione morale si presenta, nelle nuove forme di melanconia, una inclinazione a ritirarsi dall’ingovernabilità della vita e a ridurre al minimo le tensioni interne all’apparato psichico.

La nuova melanconia non origina dall’assenza o dalla perdita dell’oggetto e dunque, dall’impossibilità di elaborare il lutto per la perdita di un oggetto narcisisticamente significativo, ma scaturisce dalla presenza iper-presente dell’oggetto che penalizza l’emergere del desiderio (Recalcati, 2019).

Steiner (1996) definisce le esperienze di isolamento e di sottrazione del sé dalla realtà “rifugi della mente”, luoghi mentali dove l’individuo si ritira per sfuggire all’angoscia, una sorta di autocura per un Io danneggiato o in grave pericolo quando è posto di fronte alla necessità di affrontare una perdita o una separazione. Secondo Steiner il rifugio mentale serve quindi a neutralizzare, controllare ed elaborare l’angoscia di morte e l’aggressività, ma nei soggetti in cui le problematiche sono particolarmente disturbanti, il rifugio può giungere a dominare la psiche portando ad un isolamento dal mondo oggettuale, in favore di attività in cui l’aggressività è rivolta contro se stessi. Il rifugio può diventare uno stile di vita caratterizzato da un mondo onirico o fantastico, preferibile al mondo reale.

Ritirarsi temporaneamente in questi rifugi crea sollievo e non ha alcunché di patologico, ma quando il ritiro tende alla reiterazione eccessiva comporta il rischio della distorsione del senso di sé e delle relazioni con gli altri, fino alla perdita del contatto con la realtà.