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Psicologia e Psicoterapia a L'Aquila Lara Lorenzetti

Il colloquio e la psicoterapia psicodinamica

Il colloquio è impiegato da diversi approcci psicoterapeutici, quale metodo elettivo, per lo sviluppo di un processo autoconoscitivo.

Al termine del processo diagnostico, lo psicoterapeuta, in base alla problematica ed alla struttura di personalità del soggetto, può proporre l’attuazione di una psicoterapia e, attraverso una restituzione, fornire all’individuo una chiave di lettura della propria storia in una serie di formulazioni chiare per il soggetto e aderenti ai suoi vissuti interni (Del Corno F., Lang M., 1999; Lis A. et al., 1995).

Indispensabile è un tempo per riflettere e pensare, che viene lasciato all’individuo affinchè maturi l’eventuale decisione di intraprendere una psicoterapia.

La psicoterapia psicodinamica è un tipo di approccio basato su presupposti teorici e tecnici di matrice psicoanalitica. Tale approccio rivolge una profonda attenzione all’analisi del transfert, delle resistenze e alla relazione terapeuta-paziente (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

L’assunto fondamentale alla base delle psicoterapie psicodinamiche è che non si possono modificare o comprendere comportamenti, pensieri e fantasie del soggetto, senza considerare le determinanti inconsce che influenzano ogni aspetto della vita dell’individuo.

Il presente può essere compreso solo tenendo conto delle esperienze passate del paziente; i vissuti infantili sono considerati determinanti nel plasmare la struttura e i contenuti dell’apparato psichico del soggetto adulto.

L’interiorizzazione di precoci esperienze di Sè in rapporto con l’altro e relativi stati affettivi a esse associati, creano strutture rappresentazionali complesse che costituiscono il mondo interno del soggetto.

Il terapeuta psicodinamico individua ed esplora i diversi aspetti intrapsichici, relazionali ed interpersonali del paziente, al fine di aiutarlo a riconoscerli, gestirli e risolverli.

Dovrà lavorare sull’individuazione e l’analisi dei modi difensivi con cui il soggetto cerca di negare o distorcere alcuni aspetti della propria esperienza. Le difese utilizzate dal paziente, forniscono al terapeuta, informazioni fondamentali riguardo il livello di funzionamento dell’individuo, la pianificazione del trattamento e l’individuazione degli obiettivi terapeutici (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Il sintomo ed i comportamenti sono considerati come riflessi di processi inconsci che difendono il soggetto da sentimenti e desideri rimossi (Gabbard G.O., 2014). I sintomi rapprersentano un soddisfacimento parziale, mascherato e distorto, sia di istanze dell’Es che di istanze del Super-io (Gislon M.C., 1988).

Nel colloquio, secondo Bergeret (1979), l’interesse dello psicologo non è rivolto nè al sintomo, nè alle sole manifestazioni somatiche. Tuttavia, il paziente, deve sentirsi autorizzato a soffermarsi sul sintomo, come e quando vuole (Bergeret J., 1979).

Il colloquio psicodinamico permette di comprendere i conflitti del paziente, come si pone in relazione alle persone della sua vita e raccogliere i dati necessari per la valutazione dei suoi bisogni. L’obiettivo principale è quello di stabilire una comprensione condivisa con il paziente, affinchè si senta considerato come una persona unica con problemi specifici.

L’individuo che intraprende una psicoterapia psicodinamica è un partecipante attivo all’interno di un processo esplorativo e deve sentirsi libero di poter riflettere ed analizzare con calma ciò che prova.

 

Bibliografia:

Bergeret J., (1979), Psicologia patologica. Teoria e clinica. Milano: Masson.

Del Corno F., Lang M., (1999),  Modelli di colloquio in psicologia clinica. Milano: Franco Angeli.

Gislon M.C., (1988), Il colloquio clinico e la diagnosi differernziale. Torino: Bollati Boringhieri.

Gabbard G.O., (2014), Psichiatria psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina, 2015

Lis A., Venuti P., De Zorzo M.R. (1995), Il colloquio come strumento psicologico. Firenze: Giunti

Lingiardi V., Gazzillo F., (2014), La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinicae diagnosi al servizio del trattamento. Milano: Raffaello Cortina.

 

Gelosia e umiliazione: “Tu non mi ami!”

La gelosia non è una reazione così semplice e naturale come crediamo; spesso, infatti, si è gelosi senza una reale motivazione. Una tipica situazione è quella della rivalità in amore: nella misura in cui si manifesta come una reazione d’odio e di aggressività a una perdita reale o minacciata, è tanto inevitabile quanto ogni reazione di questo tipo.

Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione per aver danneggiato la sicurezza e la fiducia in se stessi. Tali perdite non sono sentite consciamente da una persona gelosa, al contrario, quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente arrabbiato e più è depresso.

Non essere amato o credere di non esserlo, significa inconsciamente che non è da amare, che è odioso e pieno di odio. Sente di essere stato abbandonato e disprezzato dalla persona che ama perchè non è abbastanza buono per lei. La depressione, le paure di solitudine e la sensazione di essere vulnerabile di fronte al pericolo che questo pensiero di non essere amabile fa sorgere in lui, sono insopportabili. Odiando e condannando l’altro, in questo caso il rivale in amore, riusciamo a mitigare l’intensità della gelosia e l’odio può essere rivolto contro di lui senza senso di colpa.

Secondo J. Riviere, quando qualcuno inconsciamente si sente insufficiente in amore e teme che questa sua insufficienza possa essere scoperta e palesata dal suo partner in amore, inizia ad essere geloso.

L’uomo che ha perduto o pensa di perdere la persona che ama, reagisce non solo alla perdita dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore come prova di fronte a se stesso del proprio valore (M. Klein; J. Riviere., 1969).

Diventare genitori

La genitorialità implica la capacità di un adulto, genitore biologico o meno, di prendersi cura di un altro individuo, sia sul piano fisico che affettivo: capacità di occuparsi dell’altro, di individuarne i cambiamenti riguardanti l’aspetto e il funzionamento corporeo e psichico, di esplorarne le emozioni, di garantire protezione attraverso un accudimento adeguato e centrato sulla capacità di rispondere al bisogno di protezione fisica e sicurezza, di entrarne in risonanza affettiva e relazionale, di dare dei limiti e di prevedere il raggiungimento di tappe evolutive dell’altro (Bastianoni, Taurino, 2007). La genitorialità è da intendersi però, anche come un percorso dinamico che comporta una continua riorganizzazione in virtù dei cambiamenti evolutivi dei figli ma anche degli stessi genitori, oltre che degli accadimenti contestuali.

Tali diverse funzioni di cura si traducono in comportamenti verbali e non, che variano sia da persona a persona che all’interno delle singole relazioni di cura che una persona stabilisce con figli diversi o con lo stesso figlio in tempi diversi.

Va intesa non solo come l’insieme di atteggiamenti, comportamenti e sentimenti di cura ma, primariamente, come una dimensione interna simbolica che si origina a partire dalla propria esperienza di figli.

Di fondamentale importanza appare, dunque, la relazione tra gli individui come esperienza che organizza il mondo esterno e che struttura quello interno.

La funzione genitoriale è composta, quindi, da molti piani e la sua comprensione deve tenerli tutti in considerazione, in modo da individuare eventuali difficoltà e prevenire un impatto, talvolta determinante, sul percorso di crescita del bambino.

Bowlby (1969), come è noto, parla di “modelli operativi interni” per descrivere la rappresentazione interna della relazione d’attaccamento nei suoi aspetti strutturali e dinamici.

Ciò implica che un individuo che ha interiorizzato un modello operativo delle figure di attaccamento come amorevoli, disponibili ed attente ai suoi bisogni, percepirà se stesso come degno e meritevole di cure (Bowlby, 1973, 1980, 1988) e le sue relazioni future saranno condotte alla luce di questi assunti. Al contrario, un bambino che ha sperimentato un attaccamento di tipo insicuro può percepire il mondo come pericoloso, considerandosi incapace e non meritevole di amore; di conseguenza, ogni relazione affettiva avrà l’impronta di questi sentimenti negativi e difensivi.

Diventare genitori implica un profondo cambiamento che richiede un forte adattamento psicologico ed una riorganizzazione della coppia e delle proprie relazioni interpersonali.

Appare indispensabile porre una particolare attenzione a questo periodo, considerato proprio come un momento di crisi, in cui si riattivano conflitti e vissuti dell’infanzia.

Qualsiasi fattore che influisce su un membro della famiglia esercita un effetto anche sugli altri membri; dunque, le condizioni psicosociali ed emotive dei partner si influenzano a vicenda.

L’intero sistema familiare subisce numerosi cambiamenti nel periodo successivo al parto e, oltre a rappresentare un momento ricco di gioie ed emozioni positive, è caratterizzato anche da difficoltà nell’adattarsi ai nuovi ruoli genitoriali, ansia e stress per entrambi i genitori che necessitano di maggiore ascolto, protezione, conforto e rassicurazione.

Destino e Inconscio

Il Destino e l’Inconscio

Quando la vita ci pone davanti a dei momenti fatali o a delle inspiegabili ingiustizie, l’uomo si chiede da sempre, perché?

La risposta più semplice e antica a questa domanda è: destino.

Imprevedibilità e casualità sono il volto instabile e destabilizzante del destino. Il caso non risponde a nessuno schema o organizzazione, è inaccessibile alla comprensione e il suo andamento è opposto al concetto di ordine. Così, osservando gli avvenimenti casuali, non è possibile leggere alcuna logica comprensibile o uno scopo sensato; ogni evento fortuito non è prevedibile, non sembra avere una finalità, una motivazione o una spiegazione. Il concetto di caso appare, dunque, come un affronto all’Io, alle sue facoltà di comprendere, predire, determinare e alle sue funzioni di controllo.

Asserire che la spiegazione degli eventi fatali sia dovuta esclusivamente al caso può sembrare semplicistico e dunque, si avanza il sospetto che il caso sia un evento la cui causa è ancora sconosciuta. Il sapere, infatti, toglie sicuramente terreno alla dottrina del caso e, dinanzi alle cognizioni dell’intelletto, non si invoca più l’intervento della sorte per spiegare la realtà.

Un evento può rivelarsi fortunato o sfortunato, a seconda dei momenti in cui accade o delle conseguenze che avrà nel futuro. Caso e fortuna fanno sentire l’uomo impotente e se il tutto avviene secondo un’imprevedibile volubilità, non esiste ragione perché l’Io si impegni nell’autodeterminazione. Se lo strapotere è della fortuna, l’Io non può che abbandonarsi all’impotenza, adagiandosi pigramente e demandando ad esso ogni scelta e responsabilità; se invece, l’Io non riconosce il potere della fortuna, non può che affermare la sua onnipotenza, ritenendo la sua abilità più efficace del caso, erotizzando la sfida con la fortuna, consapevole della sofferenza che ne conseguirà.

La psicoanalisi ha ridimensionato il concetto di destino; ad oggi l’ipotesi che l’inconscio sia responsabile di comportamenti apparentemente fortuiti è ampiamente accettata dalla cultura contemporanea. Atti ed eventi mancati, omissioni, dimenticanze e malintesi, un tempo considerati figli della casualità, oggi sono attribuiti all’inconscio. Questo si rivela nella reiterazione di comportamenti o impedimenti, in atti inspiegabili alla ragione, in tutte le coazioni a ripetere e ripropone modelli identici con la stessa perseveranza del destino.

Le sue manifestazioni assumono un andamento simile alle combinazioni del caso: imprevedibili, perverse e insensate, come solo il caso sa fare. Se si riuscisse a scrutare nell’abisso della mente, molte cose apparentemente assurde troverebbero una spiegazione; non è raro osservare partner diversi di una stessa persona che ricordano quelli precedenti e presentano tratti e caratteristiche in comune anche nell’aspetto. Le relazioni umane o i rapporti d’amore di alcune persone si concludono tutte nello stesso modo e, a questa apparente casualità, la scoperta dell’inconscio può offrire nuovi scenari e rintracciare scopi che il conscio mai condividerebbe, anzi, al contrario, troverebbe lesivi, dolorosi o assurdi.

Nel creare apparenti combinazioni ed eventi, l’inconscio lavora ad un preciso piano e persegue mete e scopi coerenti, ignoti all’Io e non conoscibili né spiegabili al conscio. L’Io non ha consapevolezza delle sue intenzioni e così gli eventi della vita appaiono spesso fortuiti e imprevedibili, ma solo in apparenza. (Widmann C., 2006).

Terapia e Separazioni

Fallimenti Matrimoniali e cattive separazioni

Nell’ultimo decennio la famiglia italiana ha attraversato dei momenti di grave crisi e i figli sono stati spesso posti al centro del conflitto tra i genitori. Nell’evoluzione normale del bambino sono spesso presenti timori, ansie e momenti di tristezza, contenuti e trasformati attraverso valide relazioni familiari e sufficienti risorse interne al bambino.

La rottura del legame tra i genitori e l’intenso stato di conflitto può invece far riemergere, in modo spesso intenso e patologico: ansie, timori di abbandono, angosce persecutorie e depressive; nel bambino vengono a mancare proprio quei punti di riferimento chiari e rassicuranti di cui avrebbe bisogno. La separazione di per sé non porta necessariamente ad effetti negativi e patologie ma è il conflitto e la “cattiva separazione” che porta a grandi sofferenze.

Nelle separazioni conflittuali, infatti, i bambini sono a rischio di danno evolutivo e possono attivarsi in loro molteplici vissuti e fantasie come, ad esempio, la tendenza a colpevolizzarsi per la separazione dei genitori e fantasticherie rispetto alla loro riunificazione, anche in seguito alla ricostituzione di nuovi legami affettivi con altri compagni. Tali vissuti vengono spesso aggravati dai tentativi di manipolazione che tendono a spingere i bambini da una parte o dall’altra del conflitto genitoriale. Talvolta i genitori, seppur consapevoli che il loro comportamento porterà danni psicologici al figlio, si ritrovano all’interno di una relazione perversa che non gli consente di astenersi ma di perseverare in comportamenti disfunzionali per se stessi e per i loro bambini, pur di soddisfare la rabbia e il risentimento verso l’ex compagno/a.

L’anno successivo alla separazione sembra essere quello più impegnativo dal punto di vista emotivo, sia per il dolore del distacco sia per i cambiamenti dovuti dalla necessità di riorganizzare la propria vita (Montecchi F., 2019).
Separarsi non significa soltanto perdere il proprio partner ma rinunciare a tutte le cose in comune, compresi gli ideali che un tempo sostenevano la coppia e la vita insieme. La separazione sconvolge gli strati più profondi dell’individuo e scava nel suo aspetto peggiore, portando a volte: rabbia, odio, vendetta, cattiveria, falsità e invidia. Nella loro guerra gli adulti non risparmiano i figli, fino a che non troveranno il modo di riconciliarsi. La letteratura classica ci offre la tragedia “Medea” di Euripide.

Medea, con il suo potere magico, aiuta Giasone a conquistare il vello d’oro. Giasone per riconoscenza la sposa e giura davanti agli dèi eterna fedeltà. La tragedia inizia al punto in cui Giasone abbandona sua moglie per sposare la figlia di Creonte, Glauce. Giasone non vuole essere suo nemico ed offre a Medea sostegno, cure ed aiuto economico, per lei e i loro figli, ma l’ira di Medea lo allontana e escogita terribili piani per vendicarsi: con uno stratagemma manda a Glauce un vestito da sposa avvelenato, in cui prende fuoco atrocemente e, per colpire suo marito,  sacrifica i suoi figli uccidendoli. Medea uccide per odio, rabbia e rancore verso Giasone, che lentamente va in rovina e muore in solitudine.

Riconciliarsi è la prova più gravosa e matura dell’essere umano nell’ambito delle relazioni. Non significa rinunciare alla discussione o ad uno scontro volto a difendere i propri diritti e proteggersi da un torto subito. Riconciliazione è la riappacificazione con il male che ognuno ha in sé, che una volta riconosciuto, non si oppone più al cambiamento; significa riconoscere ciò che di irrazionale c’è in sé e nell’altro, per poter porre fine a questo ciclo distruttivo (Petri H., 2000).

La maggior parte dei fallimenti matrimoniali potrebbe essere gestita in termini clinico-terapeutici e di mediazione familiare, dove il conflitto viene letto in termini di disagio psichico e le energie emotive ed economiche utilizzate per la battaglia legale indirizzate per gestire la separazione con un supporto clinico, in modo da non danneggiare i figli e la qualità della propria vita. È possibile trasformare un’accanita conflittualità in solidarietà e offrire ai propri figli una genitorialità più integrata e meno scissa (Montecchi F., 2019).